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No MES? No poltrons!

È una Meloni indiavolata, quella che dalle aule del Parlamento (italiano) strilla contro un’Europa matrigna. Quell’Europa che, anziché ricoprire di baci l’italica figliuola, restata a galla nelle ultime elezioni (europee), pazientemente attende che Scholz e Macron si lecchino le ferite e si appresta a costruire una guida dell’Unione in assoluta continuità con la precedente. 

Fuori di sé, il melonpresidente lamenta un’Italia del tutto ignorata dalle nuove nomine comunitarie. In una sorta di prova generale di «premierato» che la spinge ad autodefinirsi come «scelta dal popolo» (è scelta invece dal capo dello Stato) e «rappresentante della Nazione» (ciascun parlamentare lo è, in Italia; nell’Unione lo è invece Paolo Gentiloni).

Nessuno riesce a comprendere le ragioni di tanta ira funesta. 

Per tutta la campagna elettorale, Meloni non ha chiesto altro che «Più Italia, meno Europa». È stata pienamente accontentata: la tenuta nelle urne le consentirà forse di contare di più in Italia, ma certamente meno in Europa. In tutte le tre Europe dove l’Italia ha più di un conto in sospeso. 

Nell’Unione Europea l’Italia da tempo traccheggia nel dar seguito a molte delle direttive, anche di vecchia data. Una su tutte: la Bolkenstein

Nell’Eurozona l’Italia ha impedito agli altri Stati membri di portare a termine la riforma del MES, ponendo a rischio la stabilità di quella moneta che essa stessa ha liberamente deciso di adottare. 

Nell’area Schengen, l’Italia si rifiuta sistematicamente di attuare il dettato della Convenzione, in particolare l’art. 5, lasciando aperte le frontiere tanto in ingresso che in uscita, con grave danno dei Paesi confinanti.

Oltre ciò, le istituzioni europee vivono la sempre più urgente necessità di accelerare il processo di integrazione europeo, in un quadro geopolitico planetario che vede il continente indebolirsi sul piano industriale come su quello commerciale, su quello politico come su quello militare, su quello istituzionale come su quello del welfare. In una situazione di generale incertezza dove alcune potenze neoimperiali violano sistematicamente le regole, scatenano guerre, scardinano le pacifiche relazioni tra i popoli. 

Occorre dar vita al più presto ad uno Stato Federale Europeo, ossia l’esatto contrario di quel che l’Italia pretende: non «meno Europa», ma «più Europa». Non la brutta copia depotenziata dell’attuale Unione Europea, o l’euro senza regole con cui indebitarsi a spese dell’Eurozona, o le frontiere liberamente attraversate da un’immigrazione illegale da scaricare poi sugli altri Paesi dell’area Schengen. 

L’Italia, non solo per bocca del governo, ma anche per mano del proprio elettorato, si è in larghissima maggioranza dichiarata contraria non solo alla nascita di uno Stato Federale Europeo, ma persino al mantenimento dell’attuale livello di competenze dei tre nuclei di trattati esistenti (UE, Eurozona, Schengen). 

Legittima scelta, s’intende. Sancita dalle urne, peraltro.

Ma altrettanto legittima è l’accortezza europea nel diffidare dell’Italia. Nel non nascosto intento di tener lontano dalle istituzioni comunitarie chi si è apertamente riproposto di limitarne i poteri, piuttosto che di estenderli.  

L’Europa Federale di domani, quella che va faticosamente e lentamente costruendosi, avrà certamente, come chiunque, molti amici e altrettanti nemici. 

Dispiace constatare come l’Italia di oggi abbia scelto di posizionarsi tra quegli ultimi. 

E stupirsi del fatto d’esser conseguentemente trattata come tale.  



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