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La guancia e il dente

Una prevedibile nota diploacrobatica dell’ambasciatore di Israele presso la Santa Sede ha spento le scintille da lui innescate qualche giorno prima col definire «riprovevole» una dichiarazione del cardinale Parolin, che criticava a nome della Chiesa la «sproporzionalità» delle operazioni militari a Gaza a scapito della sicurezza della popolazione civile. 

Una scivolosa arrampicata sugli specchi scarica oggi quell’«incomprensione» su un supposto errore di traduzione. E l’aggettivo «regrettable», che ogni dizionario si ostina a voler tradurre come «deplorevole», «disdicevole», «deprecabile», «spiacevole», «increscioso», è stato a fin di bene degradato al più innocuo quanto inedito significato di «sfortunato». 

Le vie del Signore sono infinite, e uno scontro tra religioni nate da un medesimo Dio al medesimo indirizzo postale sarebbe di questi tempi alquanto inopportuno. 

Basterà il velo pietoso di una traduzione compiacente per rasserenare gli animi tra Roma e Gerusalemme?

Al fondo della questione vi è certamente la maggiore attenzione che i cristiani riservano ai Vangeli, piuttosto che alla Bibbia: fonte primaria della religione ebraica. 

È una questione di guance e di denti, dove il «porgi l’altra guancia» dei Vangeli sta diametralmente all’opposto di quell’«occhio per occhio, dente per dente» della narrazione biblica.

«Vita per vita: occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido [Esodo, 24-26]» è la cosiddetta «legge del taglione», direttamente ereditata dal codice di Hammurabi. Essa costituisce comunque un progresso, rispetto alla vendetta sregolata e sproporzionata praticata da Lamec, discendente di Caino: «Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settantasette [Genesi, 23-24]».

Musica assai diversa è quella dei Vangeli. 

«Avete inteso che fu detto: occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due. Dà a chi ti domanda, e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle [Matteo, 5, 38-42]». 

E ancora: «Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano. A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l'altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica. Dà a chiunque ti chiede; e a chi prende del tuo, non richiederlo. Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro [Luca, 6, 27-31]».

È dunque normale che ciascuno faccia il proprio mestiere e che, al cospetto del selvaggio massacro del 7 Ottobre, Roma chieda perdono ed Israele vendetta. Ma poiché la scelta finale tra il dente e la guancia spetta comunque all’offeso, va da sé che il biblico Israele abbia scelto il dente. 

— Dente per dente — osservano tuttavia i detrattori — non significa molti denti per un solo dente: occorre che la vendetta sia «proporzionata». Non si può rispondere a un massacro con un «genocidio» — come le anime belle amano oggi definire la risposta armata di Israele ad Hamas.  

* * *

«Sproporzionalità» e «genocidio» sono dunque i due volti della terribile accusa che Israele si vede quotidianamente rivolgere dai propri (troppi) nemici. 

Ma può esser credibile definire «genocidio» l’azione militare di Israele contro Gaza? Può ritenersi corretto parlare di «sproporzionalità» nella risposta armata all’attacco terroristico di Hamas?

Se per «genocidio» si intende lo sterminio di un popolo in quanto tale, viene da domandarsi quale sia quel popolo oggi minacciato in tal senso. Non certo l’etnia palestinese, distribuita tra Israele e Cisgiordania, dove vive in pace sotto la protezione dell’Autorità Palestinese e per la quale ben poco è mutato. 

Chi rischia sotto le bombe non sono «i Palestinesi», ma gli abitanti di Gaza: non solo di etnia palestinese ma anche di altre nazionalità: italiana, americana ed europee incluse. Non un «popolo», dunque, ma chiunque si trovi oggi ad abitare quel minuscolo territorio amministrato in piena autonomia dall’organizzazione terroristica di Hamas, al momento unico e principale obiettivo degli attacchi armati israeliani. Non soltanto per difendere i propri concittadini dai persistenti attacchi di Hamas e di chi lo sostiene, ma anche nel tentativo di portare in salvo i molti Israeliani rapiti, imprigionati e torturati, o di recuperare quanto meno i resti dei molti che son stati uccisi.

Se per «sproporzionalità» si intende poi un numero sproporzionato di abitanti civili di Gaza caduti negli attacchi israeliani sul territorio, andrebbe ricordato che – in assenza di bandiere, emblemi, colori o divise –  non esiste un sol modo per distinguere ciò che a Gaza è «civile» da quel che invece civile non è: si tratti di edifici, caserme, basi operative, prigioni, depositi di armi o singole persone. 

Innocenti lo sono certamente, per definizione, i bambini (ma non necessariamente i minori, talvolta utilizzati in azioni persino suicide), ma non vi è e mai vi è stata guerra, incluse le educatissime guerre europee, in grado di evitare il danno collaterale di migliaia di vittime innocenti.

Se per «sproporzionalità» si vuole invece intendere il rapporto matematico tra i 1.500 massacrati da Hamas e i 30.000 periti nell’invasione della Striscia, andrebbe ricordato che Hamas sta a capo di Gaza in virtù del libero voto di oltre il 60% della popolazione che vi abita. Escludendo i bambini, non è inverosimile ipotizzare che la quantità dei seguaci di Hamas sia nell’ordine di un milione di individui: gli stessi che han danzato e festeggiato per strada alla notizia dei massacri. Ed è a quel milione che va rapportata la cifra dei 30.000 colpiti: un confronto dal quale, se mai dovesse emergere qualche «sproporzionalità», andrebbe certo a svantaggio di Israele, piuttosto che di Hamas. 

L’obiezione del mondo occidentale è che nessuno chiede la resa di Israele o l’impunità di Hamas, ma nient’altro che un «cessate il fuoco», reso appetitoso dalla promessa di restituzione degli Israeliani rapiti e sopravvissuti: non certo come atto di generosità e pentimento, ma da pagarsi a caro prezzo con la liberazione di un numero triplo di criminali detenuti in carcere e destinati a ingrossare le fila degli assassini di Hamas.

Pur senza perdere di vista la possibilità di soddisfare le aspettative dei parenti dei rapiti, pronti a tutto pur di rivedere i loco cari, Israele sa che un punto di non ritorno è stato già toccato, e che l’azione di Hamas ha posto definitivamente fine ai molti tentativi di dar vita a uno Stato palestinese: sforzi di fatto sin dal principio combattuti, boicottati o impediti proprio da parte araba o dagli stessi palestinesi.

Non c’è più spazio per un accordo basato su una reciproca pacifica convivenza, se da parte palestinese persiste la più volte ribadita promessa di una completa distruzione dello Stato di Israele. 

È una situazione non dissimile da quella che pose termine alle guerre indiane in USA, quando l’unione fra le tribù dell’Ovest, pericolosamente armate di moderni fucili venduti loro da mercanti senza scrupoli, divenne una minaccia non più soltanto contro i coloni, ma contro l’appena unificata nazione americana.

Persero gli Indiani. Quelli sì, sterminati.   

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