1) il numero di preferenze, così come ancor prima della sfortunata unione, premia comunque le Buone Azioni, con valori più che doppi rispetto alle Cattive Azioni;
2) il numero dei deputati e senatori, allettati da facili promesse, pende a favore delle Cattive Azioni, col capoccia impegnato a tempo pieno in una compulsiva operazione di shopping: talvolta a spese dei partiti confinanti, più spesso nella bottega dell’ex alleato pentito.
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Il gatto resta dunque più amato della volpe, ma la volpe mira a impadronirsi dell’intero bottino. Quel che il gatto non avrà mai, è la spregiudicatezza della volpe. Quel che la volpe non avrà mai, è la limpida onestà e la presentabilità del gatto.
Nel mentre, una larghissima fetta di mancati elettori, orfani di un programma politico capace di coniugare visione, serietà ed efficienza in un quadro di fedeltà alla Costituzione, maggiore integrazione europea, crescita ed autentico progresso, dimentica il certificato elettorale nel cassetto e se ne va al mare, impossibilitata a votare per quel che ancora nel panorama politico italiano non esiste.
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Ma cosa può aver scatenato l’irrefrenabile voglia di divorzio tra i due mai amati amanti?
Il peccato originale sta nel rosatellum, che ha costretto i due battitori liberi ad unirsi su basi non politiche ma strettamente commerciali: tu, volpe, mi dai le firme che a me mancano per presentare la lista; io, gatto, ti do i voti che a te mancano per entrare in Parlamento.
È stato bello (ma neanche troppo) finché è durato.
Poi sono emerse le differenze: tra chi intende la politica come una missione, e chi invece come un mezzo. Tra il missionario e l’arrivista. Entrambi inadeguati, ciascuno a proprio modo, a catalizzare il voto dei tanti orfani delle urne.
Il gatto è privo di carisma. La volpe, che pure quel carisma un tempo l’ha avuto, l’ha dilapidato tra oscuri maneggi e ancor più oscure ambizioni referendarie, sonoramente bocciate.
Inefficace il primo, impresentabile il secondo.
Se a ciò si aggiunge la forzata genericità dei programmi, fumosi quanto basta per poter metter d’accordo due tanto opposte compagini, è facile comprendere perché la battuta di pesca non abbia mai irretito più di un misero 7% di sperduti avannotti.
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Non c’è pesca senza la giusta esca. La quale è oggi principalmente costituita, come da ultima moda partitica, dalla figura carismatica del leader (inconsistente, per il gatto; screditata, per la volpe), anziché, come nelle formazioni di una volta, dall’appetitosità degli obiettivi e del programma.
Dunque o si interviene sul primo punto, individuando un leader più carismatico dell’attuale (ancora una donna?), o si lavora sul secondo, considerato anche l’orientamento moderatamente conservatore dell’elettorato di riferimento, più sensibile alla politica di programma che non al culto della personalità.
Se la seconda via è quella prescelta, il divorzio in atto è quanto di più desiderabile si possa immaginare. Finalmente liberatasi dalla zavorra del faccendiere, la parte felina potrà finalmente dedicarsi all’elaborazione di un progetto politico originale e proprio, non annacquato dalle richieste di chi persegue invece differenti obiettivi.
Pochi e puri è pur sempre meglio che (comunque) pochi, ma confusi.
Perché se si vuol far buona pesca, è essenziale far sì che i pesci si muovano in branco: difficile riempir le reti quando la moltitudine degli acquatici si sparpaglia in mille direzioni. E il branco si forma quando c’è un capo che indichi una meta. Se altri poi lo seguono, lo fanno o perché vedono in lui qualità che altri non hanno, o perché ritengono giusta la direzione intrapresa, o per entrambi i motivi.
Uscendo da ogni metafora, il partito di Carlo Calenda, che ha comunque conservato i suoi voti, ha maggiori possibilità del perduto alleato di attrarre una parte significativa di quell’elettorato moderato, convintamente progressista ed eurofederalista, fatto di teste pensanti e in cerca di un porto sicuro. Ma non possiede un carisma personale capace di attrarli. Per cui o lascia la guida a figure più empatiche e di maggior presa (Mara Carfagna? Matteo Richetti?), o si concentra sulla definizione di un articolato progetto politico condiviso e condivisibile.
O, meglio ancora, entrambe le cose.
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