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Non è stato Nettuno!

Colpa di Nettuno? No: colpa di Mennuni. 

Porta la firma di Lavinia Mennuni, senatrice targata FDI, l’emendamento butta-in-caciara che cancella di fatto il termine che l’Italia si era imposta per ottemperare alla direttiva europea (2006/123 CE) sulle concessioni demaniali dello Stato, oggi assegnate per amicizia o simpatia e in breve tempo sconfinate nell’usucapione di fatto.

Da sedici lunghi anni l’Unione Europea chiede all’Italia di adeguarsi a quelle basilari regole di democrazia e trasparenza a cui gli Stati dell’Unione sono tenuti nella conduzione del patrimonio pubblico, e dunque alla necessità di assegnare le concessioni di beni e servizi non per legami di parentela, di partito o di mafia, ma – udite udite! – con pubbliche gare d’appalto. 

Fra i tanti concessionari, alta si è levata la voce dei cosiddetti «balneari», ossia di coloro che con le più svariate motivazioni occupano da decenni le più attraenti spiagge italiane, traendo profitto non certo dal loro «lavoro» di noleggiatori di sdraio e ombrelloni, ma dalla bellezza paesaggistica dei territori di cui si son di fatto appropriati, giungendo persino a recintarli e sottrarli alla pubblica fruizione.

Protettori (come eufemisticamente amano definirsi gli sfruttatori) dell’ambiente e al tempo stesso protetti (da molti santi e da qualche Santa), gli inferociti balneari han finora fatto sì che l’attuazione della direttiva venisse di anno in anno rinviata, sino alla data recentemente concordata per il 31 Dicembre 2023. 

Ora, con un emendamento infilato di soppiatto nel cosiddetto decreto milleproroghe, i concessionari mirano a disfarsi anche di quest’ultima – ma non più ultima – scadenza, impadronendosi in tal modo del 50% delle spiagge italiane e ponendo a rischio l’erogazione dei fondi previsti dal PNRR.

Ancora una volta quelle forze politiche che han raccolto voti e son salite al governo ammantandosi della promessa di ordine e legalità, si ritrovano a difendere a spada tratta il disordine e l’illegalità. Forse con l’intento di ricambiare un favore a quei pochi sfruttatori che le han sostenute, ma finendo tuttavia col svelarne la malafede e l’inadeguatezza. Perché il rifiuto di questi ultimi di competere in pubbliche gare, certifica di fatto la loro sostanziale inettitudine. 

Chi è conscio delle proprie capacità non teme certo di confrontarsi, sicuro com’è di poter vincere. Chi invece di capacità non ne possiede alcuna, è nell’interesse di tutti che lasci al più presto il posto a chi sa far meglio. 

Tutto è progredito in Italia negli ultimi cinquant’anni anni: i treni non vanno più a vapore e la tivù non è più in bianco e nero. Solo gli stabilimenti balneari son rimasti perennemente uguali a sé stessi: qualche sdraio, qualche ombrellone e un chioschetto con ghiaccioli, cornetti e bibite da quattro soldi. 

Chi sostiene di credere nel libero mercato e nella spinta a migliorarsi che viene dalla libera concorrenza, non può in un sol colpo mettersi contro le politiche europee e continuare a favorire il sistematico scempio del territorio spacciato per «servizio». 

E un’opposizione degna del nome, che voglia senza scatenar risate definirsi «progressista», non può continuare a chiamar «progresso» lo stare fermi. Se non addirittura il tornare indietro. 

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