Non diversamente è stato imposto l’uso di chiamare pomposamente «governatore» il coordinatore della giunta regionale, sorvolando sul fatto che il governatore (quello vero) è un capo di Stato con poteri di grazia e di guerra. Infine, particolarmente apprezzato dai giornali per la brevità tipografica, ha trovato spazio l’improprio appellativo di «premier» in sostituzione del più lungo «presidente del Consiglio dei Ministri», talvolta non meno impropriamente accorciato in «capo di governo» o «primo ministro».
La manipolazione linguistica si è rivelata vincente, perché da un lato ha finito per riunire sotto la stessa bandiera (quella di forzitalia) personaggi e occupazioni spesso distanti, se non opposte; dall’altro ha gratificato del titolo di governatore (!), seppur farlocco, quei non pochi trombati precipitati dalle aule parlamentari sui più umili scranni dei serragli regionali.
La questione, fino a ieri puramente linguistica, rischia oggi, superato il primo voto in Parlamento, di incarnarsi in una nuova figura istituzionale reale: il «premier». Non dissimile, col pretenzioso nomignolo, dall’attuale presidente del Consiglio dei Ministri, ma nei fatti una nuova carica detentrice di ogni potere legislativo ed esecutivo, in grado di imporsi anche sul restante terzo potere: la Magistratura.
Si tratterebbe, in breve, di trasformare l’assetto istituzionale dell’Italia da Repubblica Parlamentare in un regime a tutti gli effetti dittatoriale. Nulla da dire, se si trattasse di una libera scelta di quella giovane Nazione, nata come Monarchia, passata per la Dittatura, adesso (momentaneamente) Repubblica e domani chissà. Sempre che di libera scelta si tratti.
Quel che è invece lecito domandarsi è «perché?». Per qual motivo, per quale impellente necessità si rende tanto urgente cambiare tanto radicalmente le istituzioni del Paese. E, soprattutto, cui prodest?
Davvero c’è chi pensa che ogni qual volta l’automobile Italia non si piazza ai primi posti, la colpa sia solo della macchina e non del pilota? E che sia dunque risolutivo cambiare la macchina ma scritturare a vita il medesimo pilota?
A noi parrebbe piuttosto che occorra tener conto di entrambi: talora va male la macchina, altre volte il pilota, ed una scuderia attenta conserverebbe le mani libere per intervenire, quando necessario, ora sull’una ora sull'altro. O, quando è il caso, su entrambi
La risposta dei promotori della madre di tutte le riforme è che il pilota va benissimo, anzi: merita d’esser confermato per acclamazione, mentre la macchina è decisamente da rottamare.
Eppure, a dispetto dell’età, la macchina non sembra poi andar così male.
Certo è che l’attuale Costituzione non prevede né la figura del «premier», né quella di «capo di governo».
La materia è regolata dagli artt. 92 e 95.
Nel primo si afferma che «Il Governo della Repubblica è composto del Presidente del Consiglio e dei Ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei Ministri. Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri».
Spetta dunque al capo di Stato (quello vero) tanto la nomina del presidente che dei ministri. Il primo «tenendo conto» del risultato elettorale, i secondi «su proposta» (non vincolante) del presidente designato. L’avverbio «insieme» sottolinea l’assoluta parità di poteri tra i ministri esecutivi e chi li presiede, che neppure dispone del potere di sostituirli: scelta riservata al capo dello Stato e sottoposta al beneplacito del Parlamento sovrano.
L’art. 95 specifica invece che «Il Presidente del Consiglio dei Ministri dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l'unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei Ministri. I Ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei Ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri […]».
Sul termine «dirige» è stata artificiosamente costruita la figura di un presidente del Consiglio inteso come «capo del Governo». Qualifica in realtà inesistente, dal momento che il presidente del Consiglio non ha il potere di imporre alcunché, ma solo il dovere di coordinare l’attività dei ministri indirizzandola verso obiettivi coerenti e condivisi, finanziariamente sostenibili. La responsabilità collegiale, infine, richiama ancora una volta la sostanziale uguaglianza tra i ministri esecutivi e il presidente che li coordina.
Ancor meno ci si può riferire al presidente del Consiglio come «premier», termine che identifica il «primo ministro» del Parlamento britannico e, conseguentemente, quelli dei Paesi del Commonwealth. Il premier (quello vero) esercita per conto del Sovrano alcuni dei poteri propri della casa regnante, della cui Corte formalmente fa parte. A differenza dell’omologo italiano, il premier inglese (quello vero) può scegliere, spostare o far dimettere i ministri, ed è primo responsabile della nazione in materia di politica estera: due compiti che la Costituzione italiana riserva al presidente della Repubblica.
Mosso dall’invidia, l’attuale governo italiano si è fatto promotore di una riforma costituzionale tesa a fortificare la figura del presidente del Consiglio dei Ministri, moltiplicandone i poteri. E poiché tali poteri non nascono sotto gli alberi, ma son nelle mani di coloro a cui la Costituzione li assegna, chiunque intenda moltiplicarli per sé, deve necessariamente rubarli a qualcun altro. Un «qualcun altro» che è in primo luogo il presidente della Repubblica, in secondo il Parlamento e – potenzialmente – la Magistratura.
Per riuscirci, l’attuale Parlamento dovrà profondamente alterare i fondamenti stessi della Costituzione, e non potrà farlo senza l’espresso sostegno della maggioranza degli elettori italiani: soli ed unici responsabili del proprio migliore o peggiore futuro.
Migliore, secondo l’attuale governo. Peggiore, secondo l’opinione di noi alati, favoriti dall’indubbio privilegio di poter osservare il mondo da quassù, e dunque nella sua oggettiva realtà e nella sua interezza (non è un caso che i terrapiattisti, quassù, stentino a far proseliti).
Per meglio intortare i fessi, i promotori della madre di tutte le riforme si prodigano nel lanciar caramelle a destra come a sinistra.
A destra sventolano il leccalecca dell’autonomia differenziata (un passo in più verso il «governatorato»?); a sinistra mostrano l’idolo dell’elezione diretta da parte del popolo (!) dell’ex presidente del Consiglio, ora elevato a premier.
Peccato che tanto l’autonomia che la norma elettorale non siano materia costituzionale, e il futuro premier avrà il potere di scriversi da sé tanto le norme regionali che una legge elettorale su misura.
Che la destra finga di abboccare, magari nella speranza di resuscitare le antiche radici autonomiste, a spese di faccendieri e generali, ci può stare. Ma che abbocchi la sinistra, prigioniera della falsa equazione «elezioni = democrazia» (come se non si votasse anche in Cina e in Russia, o nei consigli d’amministrazione delle grandi multinazionali, o nei circoli del golf) è segno insieme di ingenuità, debolezza e demenza.
È sotto gli occhi di tutti che in questo preciso momento è assai peggiore il pilota in pista della macchina, e sebbene non si veda al momento altro miglior guidatore a cui affidare il volante, ancor meno è opportuno rendere inamovibile per legge quello che già c’è, e che ha ampiamente dimostrato di non saper ottenere il meglio dal mezzo su cui siede.
Chi è disposto a credere che il voto popolare possa senza errore individuare il miglior guidatore, in luogo della saggia decisione del capo della scuderia (Quirinale) confermata dall’approvazione dei meccanici ai box (Parlamento), forse merita per davvero che il primo arrivato manometta a proprio piacimento lo Statuto e riporti indietro di cent’anni l’Italia.
Perché quello, è inutile nasconderselo, è il fine ultimo di quest’altrimenti inutile (ma non insensato) progetto di revisione costituzionale.
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