Non esistono più belle automobili. Son tutte uguali: saponette a quattro ruote con alte guance e piccoli vetri, ridotte aperture che denunciano l’urgenza di abbondare in lamiera, pur di tener insieme la leggerissima scocca, pronta a ribaltarsi al minimo soffio di vento.
Anche le ragazze son tutte uguali: viso allisciato, capelli perfetti, labbra rigonfie e sopracciglia ridipinte dagli orridi filtri «beauty» dei telefonini da quattro soldi.
L’architettura lascia anch’essa a desiderare, quando si esprime in quei nuovi fiammiferi senza capocchia che si allungano sul lato sud di Central Park, atteggiandosi a grattacieli: francobolli di costosissimo terreno elevati all’infinito e soggetti ai capricci del vento, che si diverte a farli oscillare come giunchi.
Anche la moda, da non confondersi con lo stile, non è che un container cinese stipato di scarpe di gomma e giacconi di plastica nei cinque colori prestabiliti. Non uno di più. E quand’allora ci si arma di portafoglio per rivestirsi coi marchi del lusso, si scopre che anche la camicia da mille euro è fatta di polietilene riciclato, piuttosto che di seta, di lino o di cotone. Per salvare il pianeta, s’intende. Ma non la tasca.
Non è dunque un caso se in troppi, pur di distinguersi dalla massa, amano marchiarsi da sé con un bel tatuaggio, doloroso quanto indecoroso erede di quelle strisce rosse con cui un tempo gli stipendiati usavano «personalizzare» la Cinquecento di seconda mano, nella taschereccia impossibilità di accomodarsi alla guida di una più costosa auto sportiva.
La bellezza pare aver abbandonato anche l’arte: musica ridotta a collage di loop preregistrati, discorsi trasformati in canto dagli autotuner, cinema istantaneo improvvisato con camera a spalla ed audio in presa diretta, solitamente incomprensibile. Per non parlar della pittura, letteralmente finita per strada: negli scarabocchi bombolettari generosamente ribattezzati street art. O della televisione: servizietto pubblico che si propone di avvezzare le masse alla mononeuronalità del pensiero, alla volgarità, al turpiloquio, all’esibizionismo, alle illusorie promesse dei quiz «raglia e vinci». In poche parole: ad una ricercata bruttezza.
Che stia in parte qui la ragione prima di quell’idolatria della Natura, acerrima nemica dell’umanità, che va pian piano delineandosi come uno dei tratti più significativi di questo faticoso principio di Millennio? Che in molti cerchino nei colori di un paesaggio marino o in un luminoso tramonto quell’inafferrabile bellezza che la Cultura non sembra più in grado di apparecchiare, ma la Natura invece sì?
Non è un’idea da scartare.
Nell’età della forzata globalizzazione non è facile dar vita ad un’idea di bellezza ovunque condivisa, che possa venir percepita come tale da culture e realtà anche estremamente distanti tra loro: Paesi dove «grasso è bello» ed altri dove la magrezza impera; nazioni votate al silenzio ed altre alla festa e al rumore; un equatore trionfo dei colori e due poli dove persino gli animali vestono o il bianco dell’orso o il bianco e nero del pinguino; civiltà dedite alla solitaria meditazione ed altre alla vita di comunità.
Mai come di questi tempi è stato forse così difficile riassumere in un solo oggetto, forgiato da mano umana, un’ideale di bellezza universalmente riconosciuto nel mondo.
È assai più facile, all’opposto, che un Africano e un Cinese, un Americano e un Afghano, un Islandese e un Cubano possano col medesimo piacere nutrirsi della bellezza di un fiore, meravigliarsi al cospetto dei rapidi mutamenti del cielo o del mare, ammirare le buffe o eleganti movenze di un qualsiasi essere animato, dalla tartaruga alla farfalla.
Siamo dunque giunti alla fine della Cultura, apparentemente impossibilitata a competere con quella Natura che l’umanità ha per secoli tentato di imitare, studiare, contrastare e superare, dando così vita all’Ambiente, ossia alla Natura domata e mediata dalla Cultura?
No. La fine della Cultura non potrebbe esser altro che la fine dell’umanità stessa, regredita fino a scordarsi perfino dell’uso del linguaggio e della parola, primo strumento di quell’accumulazione del sapere che l’ha condotta a distinguersi dal resto del Creato.
La Cultura, per sopravvivere, dovrà piuttosto rigenerarsi ed adeguarsi: trovare nuovi linguaggi, nuovi ideali estetici, nuove capacità comunicative. Non potrà più limitarsi a ritrarre tante piccole fette di mondo, ma dovrà ambire a raffigurare l’umanità nella sua globalità. Non più Veneri di Milo contrapposte agli idoli dell’Isola di Pasqua, ma rappresentazioni che possano esser percepite come «belle» tanto nei più raffinati circoli europei che tra gli abitanti di un villaggio appartato nel cuore della giungla.
Questo può e deve fare un’umanità che dispone ormai di mezzi di comunicazione in grado di mettere in contatto visivo e uditivo, ad un costo assai vicino allo zero, ogni più sperduto o iperpopolato angolo del pianeta.
Un’umanità che non pare tuttavia esser pienamente cosciente della smisurata potenza di un simile mezzo: inonda le televisioni di stupidi pagliacci, stupide storie e stupidi quiz; riempie i telefonini con stupidi giochini, tempeste di scherzi e videobarzellette, rancorose esplosioni di supponente ignoranza.
Un’umanità che resta in attesa di un nuovo credibile messaggio di eterna ed universale bellezza. Di una raffigurazione nella quale un qualsiasi abitante di questo solitario pianeta possa rispecchiarsi, riconoscersi ed apprezzarsi. Osservandosi e sentendosi, come in effetti è, umanamente simile, cointeressato e vicino agli altri otto miliardi di suoi forzati conviventi.
Per scoprire, infine, che così «altri» non sono.
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