Nessuno definirebbe «incontro di boxe» lo spettacolo di un pugile di settanta chili costretto a difendersi sul ring da un avversario che ne pesa millenovecentosessanta: ventotto volte di più.
Eppure, tale è la lotta tra la Russia imperiale di Putin e la confinante Ucraina, ventotto volte più piccola. Una disparità da far impallidire la sproporzione tra Davide e Golia.
Se poi si considera che quel combattimento non è stato sportivamente concordato e programmato, ma avviato nottetempo e di nascosto per mano del più grande e più forte, dovrebbe apparire evidente che non di guerra si tratta, ma solo di una vile aggressione. Di una proditoria offesa dalla quale la minuscola Ucraina tenta strenuamente di difendersi.
Che guerra non sia, lo dimostra il fatto che si muoia da una parte soltanto: sempre al di qua del confine con la Russia, mai al di là. Non si vedono città russe rase al suolo dagli Ucraini, o civili russi sterminati, o bambini russi deportati a decine di migliaia. Come se ne vedono invece (assai) sul territorio ucraino.
Se dunque di aggressione e non di guerra si tratta, a nulla vale l’italica soluzione del «lasciamoli scannare tra loro». Perché non di una lotta «tra» belve feroci si discute, ma di una sola belva, uscita dalla tana, che si avventa sul più debole dei suoi vicini. E dal momento che la Russia (il più vasto Paese al mondo) non può a ragion veduta esser bramosa di ulteriore territorio, ben altre mire debbono nascondersi dietro la vigliacca quanto inutile aggressione.
Se quelle dovessero consistere, come molti osservatori affermano, nella volontà di appropriarsi di buona parte del Mar Nero e del Mar Baltico, così da poter finalmente armare quella grande flotta che – in mancanza di porti adeguati – la Russia non possiede, sarebbe chiaro a tutti come quel lupo rappresenti un pericolo mortale non soltanto per il minuscolo agnello ucraino, ma anche per qualsiasi altro agnello al mondo: per qualsiasi altra nazione desiderosa di vivere in pace nella serenità e nella prosperità.
Occorre ingabbiare il lupo. E se nessuno è abbastanza grosso e forte per farlo, è urgente e indispensabile che i deboli uniscano le loro forze. O son destinati a soccombere.
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Neppure si può chiamare «guerra» la missione armata che Israele ha avviato per liberare quei concittadini tenuti in ostaggio dai terroristi di Hamas tra gli edifici e le fortificazioni sotterranee di Gaza. Definirla «guerra» equivarrebbe a conferire dignità ed autorità di Stato a un gruppo di guerriglieri che Stato non è, e si spera mai possa diventarlo.
Chi chiede oggi un cessate il fuoco, dimentica che il fuoco, a Gaza, era cessato già da tempo, dopo l’estromissione forzata da parte di Israele (2005) degli ultimi coloni ancora presenti su quel territorio, conquistato dallo Stato ebraico dopo le guerre arabe del 1948.
La striscia di Gaza, autoamministrata sin dal 2006, dopo la vittoria elettorale di Hamas non ha mai subito la pur minima minaccia da parte di Israele, che ha solo provveduto a rafforzare i propri confini.
A riaccendere quel fuoco, spento diciotto anni prima, è stato Hamas con la carneficina del 7 Ottobre 2023: un’azione terroristica senza precedenti operata da un gran numero di civili provenienti dalla striscia di Gaza.
Civili, in quanto privi di alcun segno distintivo od uniforme. Incivili – o, per meglio dire, disumani – per l’indicibile crudeltà della scorreria, conclusasi con oltre 1.400 innocenti barbaramente trucidati ed altri 140 rapiti e condotti all’interno della striscia, gran parte dei quali in seguito torturati e uccisi.
La risposta di Israele è stata immediata: così come Hamas aveva violato il confine israeliano, Israele ha varcato il confine palestinese, a caccia dei colpevoli e fermamente determinato a riportare a casa gli ostaggi.
Può chiamarsi «guerra» una spedizione militare condotta per riavere indietro quel che è stato sottratto con la forza ed assicurare alla giustizia i responsabili dei rapimenti e degli eccidi?
Si tratta, tecnicamente parlando, di un’operazione di polizia. Su vasta scala, certamente, così come su vasta scala è stato il crimine.
Soltanto in senso traslato una simile operazione la si potrebbe chiamare «guerra»: così come metaforicamente si parla di «guerra alla mafia», «guerra alla criminalità», «guerra alla corruzione», «guerra alla droga». Non certo in senso proprio.
La guerra la si fa tra Stati, non tra guardie e ladri. E quando a combattere sono le guardie contro i ladri, la speranza degli uomini di buona volontà è che a vincere siano le guardie e non i ladri, se davvero quel che si desidera è la civiltà, il benessere e la pace tra i popoli.
Possono forse non averlo capito gli studenti delle università francesi o americane, che poco sanno del mondo, ma sicuramente l’hanno compreso i più avanzati fra gli Stati arabi, e persino gli stessi Palestinesi di Cisgiordania che si son guardati bene dall’imbracciare le armi, rifiutando apertamente l’appello all’insurrezione lanciato loro da Hamas.
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Non chiamatele guerre. Chiamatele piuttosto due differenti manifestazioni dell’eterna lotta tra il Bene e il Male.
Occorre soltanto comprendere (non è affatto difficile), da che parte stia il Bene e dove invece il Male.
E quindi, conseguentemente, schierarsi dalla parte del Bene. Che sembra non abitare nei maleolenti tunnel di Hamas, e ancor meno nei palazzi di Putin.
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