È questa la cruda sintesi con cui Federico Rampini, inquilino e massimo conoscitore del Paese delle aquile, fotografa sul Corriere di oggi i troppi interrogativi posti dalle imminenti presidenziali USA. Da cui dipenderà in gran parte il futuro del mondo.
Stupisce che cinquanta giovani Stati, di comprovata cultura democratica e solidissima economia, non riescano a calare sul tavolo carte più valide se non quelle di un ottantunenne re di fiori, oltre le soglie di un naturale quanto prossimo tramonto, e di un fante di picche che giusto di ripicche si nutre, assetato com’è di vendette e circondato da pessime compagnie.
Quella di Biden è una bandiera sdrucita, strappata e stiracchiata qua e là da insanabili tensioni fra l’anima moderata del partito e quell’arrendevole miseriocrazia che regala immeritati privilegi ad ogni sorta di minoranza rumorosa, aprendo a ciascuna di esse la strada verso un potere che poi non è in grado di gestire, e che presto degenera in forme di massimalismo estremista, criminalità dilagante, malgoverno, disordine.
Il vessillo di Trump non è che uno straccio ormai stinto e sbiadito, sul quale è da tempo sempre più difficile distinguere le stelle e le strisce, mescolate come sono ai colori di tante bandiere un tempo nemiche: dal tricolore dell’amico Putin al bianco dei cappucci del Ku Klux Klan, dalle camicie a scacchi dei cowboys ai lustrini delle giacchette degli imbonitori da circo.
Possibile che un così grande Paese, ricco, generoso, ben armato, non trovi tra i suoi 336 milioni di abitanti un volto migliore con cui presentarsi al mondo?
Possibile.
La struttura reticolare del mondo interconnesso, one to one (quell’«uno vale uno» che tante illusioni – false – e tanti danni – reali – ha generato in Italia) ha sostituito la struttura piramidale di un tempo, ereditata dalle passate aristocrazie e fatta propria dall’ormai defunta civiltà industriale. Non esiste più, nel lavoro, nella cultura, nella vita quotidiana, nell'arte, nella politica, un percorso gerarchico predefinito che detti regole certe per poter scalare la piramide e giungere fino in cima, superando ad ogni successivo livello prove ed esami sempre più impegnativi.
La rete ha sostituito la piramide. Ma la nuova struttura reticolare non consente più ad alcuno di elevarsi, innalzarsi, distinguersi, ma tutt’al più di allargarsi, di tracimare, di espandersi. Non è più tempo di menti eccelse, di grandi visioni, di condottieri, di guide, ma di imbonitori, di influencer, di stilisti, di divi. Non è più tempo di qualità, ma di quantità.
Che stia tutta qui, in questa contrapposizione tra piramide e rete, tra verticale e orizzontale, tra altezza e larghezza, la spiegazione del momento di affanno che tutte le democrazie vanno di questi tempi attraversando?
Nata come metodo alternativo per selezionare una classe dirigente – per merito piuttosto che per nascita, o per potere, o per ricchezza – e poterla sostituire all’occorrenza, è ancora in grado la democrazia di setacciare il proprio popolo per poi infine estrarne il meglio? O ha finito piuttosto per identificarsi col setaccio stesso: non più umile attrezzo e strumento per selezionare i migliori, ma promosso ad essenza stessa della democrazia, feticcio da idolatrare ed adorare in quanto tale, indipendentemente dai risultati che esso riesce a produrre?
Se persino un ex-partito come il piddì decide di suicidarsi anteponendo il risultato di una consultazione fra estranei ad una votazione tra i propri iscritti, col conseguente risultato di ritrovarsi a capo – guarda caso – un estraneo, qualche spunto di riflessione dovrebbe pur esserci.
E se un grande Paese finisce col ritrovarsi senz’altre possibilità di scelta se non quella, tragica, tra un «deficiente» e un «delinquente», quale differenza ancora rimane tra un sistema democratico – forse capace di elezioni, ma non più di selezioni – e quelle bizzarrie della sorte in virtù delle quali un popolo poteva in passato ritrovarsi al comando il più saggio dei sovrani, ma anche il più pazzo e sanguinario?
Solo se saprà individuare di volta in volta le persone più indicate a guidarlo, un sistema democratico potrà ritenersi migliore di un sistema dittatoriale o dinastico. Ma ogni distinzione verrebbe a cessare qualora si ritrovasse invece costretto ad accettare il prodotto scadente che in un quel momento offre il mercato, piuttosto che il prodotto di qualità di cui avrebbe in realtà bisogno.
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