Così, malarmato come un gallo desideroso di volare più in alto del falco, se solo lo potesse, l’animo sincero, passionale e generoso di Calenda si ritrova costretto a razzolare nei bassi cortili della politica. Dove abbondano i lupi.
Come un Don Chisciotte e un Sancio Panza riuniti nella stessa persona, Calenda alterna l’incosciente purezza di un animo votato alla lotta con la saggia prudenza di chi ha quotidiana esperienza del mondo reale.
La componente donchisciottesca ha fatto sì che presto cadesse tra le fauci del Gattovolpe fiorentino, anch’esso capace di fondere in una sola persona le opposte malvagità dei due personaggi collodiani.
Quella sanciopanzista ha finito con l’asciugargli quel po’ di coraggio necessario per definire una linea politica chiara, univoca e forte, ancorata a tre o quattro punti fermi in grado di comunicare con chiarezza agli aspiranti elettori un chi-siamo-cosa-vogliamo nel quale potersi riconoscere.
Non può esserci Azione senza Pensiero, come ben sapeva Giuseppe Mazzini, padre d’ogni risorgimento. Perché quel che infine distingue una buona da una cattiva azione è proprio il pensiero che la sottende e la ispira.
Il partito di Calenda nasce da una felicissima intuizione: c’è uno spazio da riempire, al centro, in quel medio dove stat virtus. Il seme dunque c’è, il buon terreno pure. Non resta che coltivarlo.
* * *
Carlo Calenda, tradotto in cifre, si scrive: ~ 4%.
Nulla di cui vergognarsi. Il numero di persone per bene, in Italia, difficilmente andrà mai oltre quella soglia, e gli scomparsi partiti liberalrepubblicani han scritto pagine di Storia senza mai troppo scostarsi da quella cifra.
Il Partito Liberale Italiano (PLI) ha oscillato negli anni tra l’1,31% e il 7,44%. Il Partito Repubblicano (PRI) tra lo 0,02% e il 5,71%.
Ciò non ha impedito al PLI di veder eletti due suoi Presidenti della Repubblica (De Nicola ed Einaudi) e far parte di 17 governi. E ha permesso ai Repubblicani di veder nominato un presidente del Consiglio (Spadolini) e propri ministri in ben 28 governi.
Un primo punto identitario potrebbe allora essere il disprezzo della quantità a vantaggio della qualità: meglio pochi, ma con idee forti e chiare, che un frammento di improbabili alleanze dove inevitabilmente idee differenti finirebbero con l’annacquarsi – se non dissolversi – fra loro.
Al secondo posto non può che esserci un’idea fondante di nazione.
Se si è convinti che la (storicamente giovane) Costituzione italiana quest’idea in gran parte già la rispecchi, si tratterà allora di rafforzarla, e difenderla da chi ha promesso di manometterla e demolirla.
Un obiettivo urgente e non più rinviabile potrebbe essere la restituzione agli Italiani della libertà di voto, conculcata da quel rosatellum che non consente di indicare sulla scheda né un nome, né un partito, dando forma ad una legge elettorale democratica e condivisa da iscrivere una volta per tutte in Costituzione. Mission impossible, forse, nel 1948. Ma non per questo nel 2024.
Occorrerà anche rafforzare quella separazione tra i poteri che sta alla base della legge costituzionale, eliminando ogni possibilità di appartenere a un sol tempo a più d’uno di essi: non si può esser contemporaneamente membri del Parlamento (che dà gli ordini) e ministri del Governo (che li esegue), o il Governo sarà tentato dallo scriversi da solo le leggi, così da operare nell’interesse di se stesso, anziché della nazione. E via mescolando.
Al terzo posto vi è certamente la collocazione internazionale dell’Italia, in particolare all’interno del consesso europeo. O meglio, dei tre consessi europei di cui l’Italia fa parte: l’Unione Europea, l’Eurozona, l’Area Schengen.
Un partito di centro, che si definisce tale perché dedito alla ricerca di quella stabilità e di quell’equilibrio che solo una collocazione lontana da ogni estremo può garantire, non può ignorare che in un pianeta dove la stragrande maggioranza degli Stati sono da tempo riuniti in grandi e piccole confederazioni, dagli USA alla Russia, dall’India al Brasile, dal Messico al Venezuela, non può esistere un futuro per gli Stati dell’Unione se non all’interno di una Confederazione Europea con poteri legislativi, esecutivi e giudiziari nelle materie di interesse comune. Con una moneta comune ed una difesa comune.
Mission impossible anche questa, fino a qualche anno fa, fra Stati che quasi per un quarto sono monarchie (Spagna, Lussemburgo, Belgio, Olanda, Danimarca, Svezia) ed altri già federati al loro interno (Germania, Austria, Belgio).
Ma alcuni avvenimenti, a partire dalla Brexit – che ha più che dimezzato le capacità di difesa dell’Unione, privandola tra l’altro di una tra le più estese reti di basi militari estere – seguita dall’esperienza pandemica e quindi dal sempre più chiassoso e vicino spirare di venti di guerra, ha certo ammorbidito molti dei pregiudizi in tal senso, seppur rafforzando, per reazione, le formazioni nazionaliste, sovraniste, neofasciste e e neonaziste che ancora razzolano all’interno di molti tra gli Stati membri.
— O l’Europa si fa Stato — come sostiene chi di Europa se ne intende: Mario Draghi — o non sopravviverà.
Sbranata da Russia, Cina, Brics e USA.
Occorrerà dunque porre al centro di ogni programma di politica estera l’idea di Eurofederalismo: cosa ben differente e distinta da quel generico «europeismo» che riempie le bocche di tanti acerrimi nemici di un autentico Stato Federale Europeo.
Un programma in tre punti, dunque: chiari, inequivocabili e qualificanti. Da declinare certo, di volta in volta, per meglio adattarli alle necessità contingenti, ma da non tradire mai:
1) qualità della proposta politica: volta al bene del Paese e non all’accattonaggio di qualche voto;
2) la Costituzione come faro, rafforzata nelle linee guida (separazione dei poteri, libertà di voto) piuttosto che indebolita;
3) Europa Federale, con poteri ad essa conferiti nelle materie di interesse comune, con confini condivisi e una moneta unica.
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Scritta la musica, occorre tuttavia un esecutore. E qui il nastro si riavvolge, fino alle prime righe di queste brevi note: occorre un musicista capace di trarre il massimo dallo strumento. Volendo azzardare qualche nome, tra i più stretti collaboratori di Carlo Calenda, quello di Matteo Richetti, dai pacati e credibili toni draghiani, o quello di Mara Carfagna, esperta in comunicazione e in grado di suscitare larghe empatie anche oltre i confini del partito, sembrano forse più spendibili di quello del fondatore e animatore.
Giuseppe Mazzini l’avrebbe forse pensata allo stesso modo. Bene il Pensiero di Carlo Calenda, che ha saputo dare alla luce il piccolo ma promettente soggetto politico, ma all’Azione non è sufficiente un simbolo: occorrono anche il volto e il carisma di una persona che ne incarni la ragion d’essere, i contenuti, le prospettive, capace di suscitare entusiasmi ed indicare con chiarezza la via. E conquistare alla causa il favore degli elettori.
Quelli che alle urne già ci vanno, e quei molti che altro non attendono che un valido motivo per tornarci.
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