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Vinceranno?

Vincere? Vinceranno. A meno che…

A meno che intorno a un piddì sedotto e abbandonato dalle orde barbariche postgrilline non trovino acconcio riparo i tanti orfani di Draghi. Senza star troppo a domandarsi quanti lo piangano con sincero affetto e quanti per personale interesse.

Così almeno impone un sistema elettorale (il Rosatellum) che in verità elettorale non è, dal momento che non lascia all’elettore possibilità alcuna di indicare con nome e cognome la persona che vorrebbe veder eletta in Parlamento. Un sistema che, in particolare nella parte maggioritaria, premia le coalizioni. E, al momento, la sola coalizione in corsa è quella salvosilviomeloniana, per di più col possibile travaso di un certo numero di nostalgici randagi in fuga dal branco a cinquezampe. 

Se così sarà (o meglio «è», visti i tempi brevi delle urne) un partito dato oggi al 21,3% dovrebbe vedersela muso a muso con una compagine che al momento vale un 46,6%, ma che potrebbe persino oltrepassare il 60%, se dovesse intercettare anche solo una parte dei grilli salterini. 

Vinca chi deve vincere, s’intende. Ma c’è un punto limite oltre il quale sarebbe bene che nessuna delle coalizioni in gara si spingesse. Parliamo di quel 66,6%, pari ai due terzi delle Camere, che consentirebbe al vincitore di riscrivere la Costituzione di proprio pugno e a proprio piacimento, ponendo così a rischio le fondamenta stesse su cui si regge l’unità nazionale. 

Il solo modo per far sì che chi vince, vinca ma non troppo, è quello di fare in modo che chi perde, perda ma non troppo. Per questo motivo anche il più piccolo apporto di uno sperduto partitino potrebbe infine determinare un’esiziale differenza. 

Ma osserviamo da vicino il campo su cui confronteranno i vari schieramenti.

Il Rosatellum bis (L. 165/2017) assegna per via maggioritaria oltre la metà dei seggi (il 37%) e il 61% per via proporzionale, mentre il restante 2% è destinato ai rappresentanti degli Italiani all’estero. 

Sono previste soglie di sbarramento nazionali del 3% per le liste singole (10% per le coalizioni) e regionali del 20%.

Ne discende per le forze politiche la necessità, prima ancora che il vantaggio, di presentarsi coalizzate. Non solo per aver la certezza di superare la soglia di sbarramento ma, soprattutto, per poter sperare di competere nella quota maggioritaria.

Tralasciamo la quota proporzionale, dove i partiti presentano liste bloccate di amici e tirapiedi sui cui nominativi poco può fare l’elettore, che non dispone di alcuna possibilità di scelta. E tralasciamo le liste estere, dimostratesi col voto anticipato per corrispondenza e le operazioni di spoglio prive di alcun controllo una fabbrica di brogli fortunatamente non in grado di incidere significativamente sulla composizione finale delle Camere. 

Meglio concentrarsi invece sulla quota maggioritaria. 

«Nei collegi uninominali», recita la legge, «il seggio è assegnato al candidato che consegua il maggior numero di voti validi; in caso di parità, è eletto il più giovane per età».

Ciò significa che nessun partito che si misuri singolarmente contro una coalizione di due o più partiti avrà una benché minima possibilità di veder eletto il proprio candidato. 

Detto ciò, l’intera questione da politica parrebbe diventare puramente numerica: vince chi accatta un voto in più dell’avversario. 

Esistono tuttavia due possibili strade: la prima è appunto quella (numerica) di opporre all’avversario una coalizione capace di portare alle urne il maggior numero di fedelissimi; la seconda (più propriamente politica) sarebbe quella di candidare, quanto meno nella quota maggioritaria, persone di altissima levatura intellettuale e morale, tali da raccogliere intorno a sé nuovo elettorato ed attrarre voti finanche dalla coalizione avversaria. 

Non è una cosa nuova. Era, dopotutto, il sistema prediletto dal vecchio PCI, che sin dal 1948 non mancò di riservare i primi posti in lista ad un certo numero di candidati indipendenti dal partito, ma di valore universalmente riconosciuto. Una volta eletti, poi, con grande signorilità il partito neppure mai pretese che si iscrivessero al gruppo parlamentare del PCI, ma anzi diede loro la possibilità di optare per il gruppo alternativo degli Indipendenti di Sinistra. 

È il PCI che lo insegna: manda in aula una persona degna.

Che possa rivelarsi questa, infine, la chiave vincente? 

Una persona di riconosciuto valore non solo migliorerà la qualità della fauna inviata a pascolare nel Palazzo, ma può richiamare alle urne i molti delusi che non si riconoscono in alcuna parte politica, magari perché ritengono che anche l’imparzialità sia una virtù da coltivare, piuttosto che svenderla a un partito in cambio di qualche favore. 

Personaggi di grande popolarità, come lo furono a loro tempo influencer del peso di un Alessandro Manzoni o di un Gianni Rivera, di un Eugenio Montale o di un Eduardo De Filippo, di un Renato Guttuso o di un Giorgio Strehler, godono solitamente di un’ampia personale platea, capace di attraversare gli steccati ideologici imposti dai partiti.  

E pazienza se anche le forze avversarie dovessero per tutta risposta scegliere di percorrere la medesima strada. Tanto meglio: sarà comunque un bel perdere se il prossimo Parlamento avrà qualche faccia da galera in meno e qualche bella persona in più, meno suon di ragli e più saggezza nei discorsi, più esperienze professionali e meno liti da bar di periferia. 

Sarà una campagna elettorale breve, condotta sotto una calura africana con gli elettori in spiaggia e la grande programmazione televisiva in pausa agostiana. Per di più coi partiti in via di riposizionamento: le cosiddette destre sospettose l'una dell’altra, una certo friccicorino al centro, un piddì povero e disarmato e i cinquegrulli battitori liberi.

Strategicamente parlando, non si intravede altra via se non quella di sommare qualità a quantità

Bene il campo largo. Anzi: il più largo possibile (purché non concimato da deiezioni a cinquestelle), assai meglio se coltivato da persone che conoscono il loro mestiere, sanno di che parlano, godono di grande popolarità e sono ovunque apprezzate per quel che sono e per quel che fanno.

Chi sta sul mercato sa bene quanto un testimonial di valore aiuti a vendere un prodotto di valore. Funziona nelle campagne pubblicitarie. Funziona anche in quelle elettorali. 

Lo avevano capito Togliatti, Longo e Berlinguer. Diventati adulti (come si spera) dovrebbero comprenderlo anche i loro eredi.

Il tempo è poco, gli avversari tanti. Ma ancor più numerosi son quegli elettori disorientati che, a naso, han tuttavia fiutato l'incombente pericolo e non attendono altro che una seria occasione per recarsi alle urne e dare concretamente una mano.

Per vincere. 

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