Verrebbe da dir: da qual pulpito! Perché, a rigor di Costituzione, non solo ai magistrati, ma neppure a un parlamentare o a un ministro è concesso piegarsi a un qualsiasi interesse di parte.
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Deputati e senatori, una volta eletti, non rappresentano più il partito che li ha candidati, ma l’intera nazione: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato» (Cost., art. 67). Senza doversi sentire in debito nei confronti di una qualsiasi formazione politica. Movimento o partito che sia.
In conseguenza dell’art. 67, non è concessa ai partiti alcuna cittadinanza in Parlamento, dove in luogo d’essi agiscono i Gruppi Parlamentari, ai quali ciascun deputato è libero o meno di aderire, anche quando in contrasto con le idee politiche del partito di provenienza. Così come è libero di rifiutare qualsiasi legame esterno al Parlamento, per quanto tenue, ed entrare a far parte del Gruppo Misto.
Anche per i parlamentari vige insomma quell’impegno di «terzietà» che pure, assai più spesso dei magistrati, essi per primi sfacciatamente e ripetutamente ignorano.
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Un dovere di terzietà esiste anche per i ministri. Maggiore di quello a cui son tenuti i parlamentari. Perché, al contrario di quanto affermino alcuni ministri («la Magistratura si scaglia contro un governo democraticamente eletto!», firmato Meloni, presidente del Consiglio), nessun governo in Italia è o è mai stato democraticamente o indemocraticamente eletto, ma sempre interamente nominato dal Capo dello Stato (Cost., art. 92), con il compito di rendere esecutive le leggi scritte in Parlamento e promulgate dal medesimo Capo dello Stato.
Ciascun ministro, all’atto della nomina solennemente giura «…di essere fedele alla Repubblica, di osservare lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le [proprie] funzioni nell'interesse esclusivo della nazione».
Ancor più dei parlamentari o dei magistrati, dunque, i ministri sono tenuti a svolgere il loro servizio («servitore» è traduzione italiana dal latino «minister») perseguendo un interesse comune. Per di più in modo «esclusivo», dunque con totale esclusione di qualsiasi altro fine dichiarato o non dichiarato.
Chi neppure è a conoscenza che i ministri non vengono «democraticamente eletti», ma sono invece diretta espressione della volontà del Capo dello Stato, seppur soggetta all’approvazione del Parlamento, mente sapendo di mentire (se in possesso di licenza media) oppure mente senza neppure sapere di mentire (se privo di quel titolo).
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La Magistratura, in questo scenario, ne esce più che a testa alta. Mentre la stampa riempie quotidianamente pagine su pagine con dichiarazioni spudoratamente di parte in merito a qualsiasi argomento, rilasciate nel loro idioma da parlamentari o ministri, non capita quasi mai di leggerne qualcuna distrattamente sfuggita per bocca di qualche magistrato.
Tant’è che le (interessate) condanne e accuse che ministri e parlamentari indirizzano alla Magistratura non riguardano inopinate quanto inesistenti loro esternazioni, ma atti giudiziari: documenti equiparabili in tutto e per tutto alle leggi parlamentari o ai provvedimenti ministeriali. E, come quelli, appellabili e modificabili in opportuna sede.
L’arma più comunemente utilizzata contro la Magistratura, sin dai primi governi infiltrati dalle mafie, è stata quella di accusarne i membri di «parzialità», di «non terzietà». Diffondendo l’uso di chiamarli non con la loro qualifica istituzionale («magistrati»), ma ma in modo volutamente errato col nome di «giudici» o, nel migliore dei casi, di «toghe».
Chiamare «giudici» i magistrati è un segno esplicito di malafede. Perché così come son parlamentari tanto i deputati che i senatori (sebbene con compiti oggi assai simili, ma un tempo ben distinti), anche la Magistratura è fatta tanto di magistrati giudicanti che di magistrati inquirenti. Ma solo i primi possono legittimamente chiamarsi «giudici».
I magistrati inquirenti, all’opposto dei giudicanti, non hanno affatto quel dovere (che compete invece ai giudicanti) di equilibrare al millesimo di grammo i piatti della bilancia, così da poter confrontare e misurare le ragioni dell’uno e dell’altro contendente ed emettere infine un proprio equo od iniquo (ma contestabile ed appellabile) giudizio.
I magistrati inquirenti debbono al contrario calcar la mano su uno soltanto dei due piatti: quello dell’accusa. Se necessario, salendoci sopra con tutto il corpo! E sottoporre al giudice (giudicante) ogni elemento probatorio, o anche solo indiziario, che vada contro il sospettato o imputato, al quale andrà comunque garantito il diritto alla difesa: «La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione» (Cost., art. 24, c. 2-3).
In base a quanto detto, un parlamentare, un ministro o – peggio ancora – un capopartito senza alcuna veste istituzionale che denunci come persecutorio e di parte l’intento di un magistrato inquirente che sospetti una persona di un qualsiasi possibile crimine, a quel magistrato regala in realtà il più apprezzato dei complimenti: quello di far bene il proprio lavoro. Che non è quello di «giudicare», ma quello di puntare il dito ed accusare. Di essere «persecutorio» (la legge persegue chi la infrange) e «di parte» (dalla parte della legge).
Quando, per confonder ancor più le acque, si ricorre invece al termine più connotativo di «toghe», in perfetta malafede si tenta di attribuire ai magistrati un potere di vita e di morte che essi realtà non hanno, accomunandoli nel vestire (la toga) all’antica nobiltà o ai ministri del clero: nemici storici della borghesia. Al solo fine di aizzare l’odio nei confronti di un’istituzione dello Stato alla quale le altre due sono in parte soggette, così come la Magistratura lo è d’altronde nei confronti di Governo e Parlamento.
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Un altro strumento utilizzato con altrettanta malafede da parlamentari e ministri per denigrare la Magistratura, è quello di denunciare il «malfunzionalmento della Giustizia» in Italia.
Denuncia doverosa. A patto tuttavia di riversarne la colpa non sulla Magistratura – che certo non ha tra i suoi poteri e doveri quello di far marciare il sistema giudiziario, del quale la Magistratura non è che una parte minoritaria, per quanto illustre – ma sul Governo, nella persona di quel ministro della Giustizia che è tenuto a garantirne l’efficienza provvedendo quegli edifici, quel personale, quei regolamenti interni, quegli strumenti che possano migliorarne la rapidità e l’efficacia.
I magistrati in sé – così come i preti in chiesa quando l’edificio crolla in pezzi e mancano sedie, ostensorio e calice – son da considerarsi le prime vittime, e non i responsabili, di una pessima gestione del sistema.
I preti sono preti: non sono architetti, muratori, ingegneri o falegnami.
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Poteri e doveri dello Stato si incarnano nelle tre istituzioni del Parlamento, del Governo e della Magistratura.
Ciascuna dovrebbe svolgere al meglio il proprio ruolo, senza deviare dal sentiero che la Costituzione ad esse riserva. Senza che l’una tenti di sovrapporsi all’altra. Sempre (e soprattutto) lasciando oltre il portone di casa ogni interesse di parte: appetitoso mangime per movimenti e partiti, ma opposta via verso una buona e imparziale amministrazione dello Stato.
In altre parole: verso il buongoverno.
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