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Spiegabile, ma ingiustificabile

Spiegabile, ma ingiustificabile, la decisione israeliana di sparare sulle forze di interposizione ONU in Libano. E se non è stato difficile, per Netanyahu, chiamar prudentemente «incidente» i colpi del 10 Ottobre, certamente lo è riproporre la medesima definizione per quelli sparati sul medesimo obiettivo il successivo 11 Ottobre. 

La spiegazione delle autorità israeliane, giustamente pretesa da tutte le nazioni impegnate nella missione UNIFIL (United Nations Interim Force In Lebanon), Italia in testa, è stata quella che proprio nei dintorni delle basi erano con tutta probabilità operative alcune rampe di lancio dei missili di Hezbollah. 

Ciò che rende quella spiegazione del tutto ingiustificabile, invece, è il fatto che qualsiasi azione in tal merito poteva (e doveva) esser concordata con quelle stesse forze di interposizione, presenti in regime di extraterritorialità, interessate non meno di Israele a ripulire il Libano di criminali sciiti che vorrebbero impadronirsene.

La missione di pace dell’ONU in Libano fu disposta dopo lo sconfinamento dell’esercito israeliano (1978) intenzionato a distruggere le postazioni dalle quali quotidianamente Hezbollah lanciava (e ancora lancia) migliaia di razzi in direzione dello Stato Ebraico. 

Dopo una seconda penetrazione israeliana (1982), spintasi ben oltre la linea presidiata dall’ONU, la missione ha svolto per lo più attività umanitarie di sostegno verso le popolazioni locali, schiacciate tra i terroristi islamici a nord e lo Stato belligerante a sud. 

Successivamente al ritiro israeliano dal Libano (2000), il contingente UNIFIL si è principalmente occupato della definizione di una linea di confine condivisa e certa tra i due Paesi. Missione tuttora in corso. 

In seguito a un nuovo scontro armato (2006), protrattosi per oltre un mese, una  risoluzione ONU (#1701) ha affidato all’UNIFIL, opportunamente rafforzato, il compito di proteggere tutti i confini libanesi, anche per ostacolare l’afflusso degli armamenti provenienti dalla vicina Siria e che Hezbollah puntualmente riversa sulle vicine città israeliane.

Non esiste dunque, al momento, alcun fondato motivo di conflitto tra Israele e l’UNIFIL, se non quei sentimenti di irritazione espressi dallo stesso Netanyahu nel suo recente discorso al Palazzo di Vetro, e la limitazione dei movimenti in quella ristretta area che la presenza ONU inevitabilmente comporta.   

Pressato dalle diplomazie di Italia, Francia e Spagna, oltreché da larga parte dell’opinione pubblica mondiale, Israele ha promesso un’«indagine approfondita» sull’accaduto, dalla quale ci si attendono ben poche verità. 

Nel mentre, dalla frontiera meridionale del Libano continuano a piovere missili e droni sulla città di Tel Aviv, dove ancora ieri (11 Ottobre) è stato colpito un palazzo e seriamente danneggiata la rete elettrica cittadina. 

Se muoversi tra i territori presidiati dall’ONU nel sud del Libano è certamente difficoltoso, ben più impegnativo sarà per Netanyahu rispondere alla sfida lanciata dall’Iran: il Paese 74 volte più grande di Israele che finanzia e dirige i gruppi terroristi di Hezbollah, Houti ed Hamas. Un confronto impari che pare tuttavia preoccupare più l’amministrazione USA, impegnata nella campagna presidenziale, che non il minuscolo Stato di Israele, fermamente determinato a calar tutte le carte in tavola e a portare a termine il suo piano, forte com’è del tacito appoggio di Arabia, Emirati, Giordania e Bahrein, aree di religione sunnita minacciate dagli sciiti persiani ancor più di quanto non lo sia Israele. Se è vero che, mentre nello Stato ebraico l’Iran si accontenterebbe di metter le mani su Gerusalemme, dall’Arabia pretenderebbe invece tanto La Mecca che Medina.

Il nascente armamento nucleare iraniano poco spaventa Israele, consapevole com’è che un eventuale attacco sul suo ridotto territorio – più piccolo della Sardegna – non potrebbe non coinvolgere i Paesi arabi confinanti, a partire dalla Giordania e dall’Egitto. Problema che al contrario non si porrebbe, nel caso della prevedibile quanto certa pari ritorsione israeliana. 

Un Iran sconfitto e in catene, meglio ancora se restituito agli scià di Persia, è il sogno sempre meno nascosto di molti tra i Paesi arabo-sunniti che insistono nell’area. Un sogno appena abbozzato sulle carte degli accordi di Abramo (2020), sottoscritte da USA, Israele, Emirati e Bahrein sulla scia dei trattati di pacificazione di Israele con Egitto (1979) e Giordania (1994), e studiate con vivo interesse da parte dell’Arabia Saudita. Fino alla vigilia di quel tragico 7 Ottobre 2023.

Spetterà come sempre alla Storia stabilire se e in quale misura il sogno di un Iran liberato e aperto al progresso possa trasformarsi o meno in realtà. 

Certo è che, allo stato attuale dei fatti, soltanto da un’Iran rappacificato e laicizzato potrebbe giungere quella prima scintilla di pace destinata ad illuminare il futuro dell’intero Medio Oriente.  

   

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