Più della falce, poté il martello. Ed il campo sparì.
E se il problema fosse nelle piante, evidentemente aduse a piantarsi l’una con l’altra?
Si trattasse solo di quello, sarebbe sufficiente estirpare le erbacce (tante) e curare le piante utili (poche): le sole in grado di dare frutti.
Ma per farlo occorrerebbe un vero agricoltore, buon intenditore tanto delle piante come del terreno, ben attrezzato e desideroso di accrescere non solo la quantità, ma anche la qualità del raccolto.
Non è certo questo il ritratto dell’attuale piddì, idra politico dalle poche teste e dalle troppe gambe, indirizzate ciascuna in direzione opposta e contraria.
Solo un coltivatore inetto può addebitare alla limitata superficie del campo la scarsa qualità e quantità del raccolto. Come quei piloti che quando vincono è sempre merito loro e, quando perdono, sempre colpa della macchina.
Si vince anche in uno soltanto, se ti chiami Mazzini, o Garibaldi, o Churchill. Ma il piddì si chiama piddì. E, quel che è peggio, neppure è «uno soltanto». E neppure può definirsi «campo», stretto o largo che sia, quanto piuttosto un insieme di troppi piccoli orticelli, piantati al tempo dell’abbondanza ed oggi amorevolmente coltivati secondo il gusto di chi li possiede: chi a rape e carote, chi a scalogno ed indivia, chi a finocchi e cipolle. Ed il risultato finale non può che essere un gigantesco minestrone.
Buono o cattivo che sia, un minestrone è comunque il contrario di quell’Unità che, pur mantenendo un accenno di rosso giustappena nell’apostrofo, ancora incorona la prima pagina del giornale di partito.
Sempre che di «partito» ancora si tratti. E non, come molti ormai pensano (e osservano), di un «movimento».
«Varietà», nell’italico idioma, è l’esatto contrario di «unità». E un «partito» altro non dovrebbe essere che l’unione di un certo numero di persone che la pensano allo stesso modo. Che stanno tutte dalla medesima parte.
Il campo piddino, visto dalle nostre alte nubi, pare piuttosto il contrario. Non un fermo e condiviso «sol dell’avvenire» – metafora di progresso – verso cui indirizzare il cammino degli speranzosi adepti, ma l’indistinta somma di un gran numero di differenti esigenze. Ciascuna espressione di una piccola minoranza: gli ultimi frammenti paleosindacali di una classe operaia ormai estinta, i questuanti delusi dal cattolicesimo, il circo LGBTQ+, i poltronari di mestiere, gli intellettuali in cerca di una ribalta, gli insoddisfatti controtutto&controtutti, gli apprendisti sapientoni e i convinti detentori di ogni possibile verità.
Un campo forse stretto, ma sicuramente vario. Che, quando dice di volersi «allargare», non mira ad una più ampia superficie, ma ad un’ancor più ampia varietà di idee. A tutto scapito di quella precisa distinta identità che peraltro ancora non possiede.
Senza una certa e ben definita identità, nessuno può pensare di potersi ritagliare uno spazio nell’affollato mercato della politica. Dove, non diversamente dal mercato commerciale, un marchio vale spesso più del prodotto. Dove Prada vale più di Upim, Apple più di Brondi e Porsche più di Dacia.
Il piddì aveva un bel marchio, nobile erede di marchi ancor più illustri. E aveva un’identità.
Ma a che serve avere una prestigiosa insegna in centro, se poi metti in vetrina il più disparato ciarpame? Se pretendi di esporre l’uno accanto all’altro buonismi neofrancescani, rivendicazioni di genere, sguardi sul futuro e sederi sul passato, menti eccelse e imbonitori circensi, filoccidentali e antioccidentali, menti progressiste e dementi regressisti, moderazione e rivoluzione, regole e sregolatezza?
Nella migliore delle ipotesi diventi un bazar, con tante curiosità da osservare e nessuna da comprare.
Nella peggiore, chiudi bottega.
Mai, come oggi, tanto oscura.
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