Overtourism, è il neologismo che ha istantaneamente riempito le pagine dei quotidiani estivi, assetati di gossip quanto avari di notizie. Intendendo con l’esotico termine un eccesso di presenze in quelle località che da sempre attraggono un gran numero di visitatori (con disdicevoli effetti collaterali quali vandalismi, aumento dei costi abitativi, immondizia e degrado, tsunami di folle urlanti nei centri storici, generale disordine).
L’elegante parola, overtourism, presenta tuttavia un’evidente fallacia: pone l’accento solo sulla quantità delle presenze, laddove la principale questione è piuttosto la loro qualità.
Forse il termine shit-tourism potrebbe meglio definire il fenomeno: milioni di persone che sbarcano da aerei low-cost, armate di vecchie borse duty-free per scansare la tariffa bagaglio, pronte a dormire in venti in una stanza e persino in spiaggia, se il clima lo consente. Camperisti che a decine piazzano i carrozzoni nei piazzali dei supermercati (più frequentati dei musei), che chiudono volentieri un occhio ben sapendo che, oltre che invaderne i bagni per lavarsi al mattino e per i necessari bisogni, gli ingombranti ospiti finiranno prima o poi per acquistare qualcosa. Altri, nei medesimi parcheggi, dormono direttamente nell’auto.
Se è vero che nei centri storici i nativi non trovano più alloggio perché i proprietari preferiscono affittare ai visitatori stagionali, il dato che se ne può dedurre è che cresce il numero di quanti son disposti a rinunciare alla comodità, ai servizi, alla pulizia di un buon albergo per imprigionarsi invece in qualche stanzetta buia, fatiscente e ristretta, quando non addirittura in qualche scantinato frettolosamente riqualificato in B&B (bed & basta!).
Se si trattasse di un turismo di qualità, crescerebbe all’opposto la richiesta di strutture alberghiere sempre più belle, più ampie, più eleganti e tranquille. Ma quel che va oggi è, all’opposto, un turismo che qualcuno chiama «mordi e fuggi», ma che sempre più spesso è un fuggire senza neppure mordere: la foto al cibo sul piatto, anziché gustarlo; il selfie sulla celebre piazza, piuttosto che documentarsi e visitarla; l’insegna del museo o del famoso locale, ma guai ad entrarci.
La realtà sta tutta nei numeri: gli arrivi raddoppiano, le presenze son le stesse. Se la matematica non è un’opinione, l’equazione significa soggiorni più brevi. Sedie vuote nei ristoranti e disponibilità negli hotel: turismo veloce e poco propenso a spendere.
Quello che sin dal Settecento era il Grand Tour europeo – obbligo formativo per qualsiasi gentiluomo, da completarsi in molti mesi, talvolta in anni – è diventato un all you can eat dove in pochi giorni è obbligatorio entrare in contatto (fotografare, toccare) con quanto più possibile d’ogni possibile cosa: dal gatto di strada alla Venere di Milo, passando per l’etichetta del vino o la ciotola del cacio e pepe.
La domanda finale è: a che serve? Ma, soprattutto, a chi serve?
Certo non serve a chi aveva un’offerta turistica da vendere, e adesso è costretto a svenderla. Per di più a persone neppure in grado di apprezzarla, pronte ad incidere le proprie iniziali su un affresco vecchio duemila anni, o a strappar via un frammento di pietra dal Colosseo, o la tessera d’un mosaico a Pompei, o il sacchetto di conchiglie e di sabbia in Sardegna. Giusto per poter disporre di adeguata documentazione del fatto d’esserci realmente stati, non disponendo d’altre sensazioni, esperienze o memorie atte a certificarlo.
Questo turismo non serve neppure a chi turista lo è per davvero, la cui domanda nessuno pare più né motivato né in grado di soddisfare: il turista sensibile e informato, a caccia di quella sindrome di Stendhal che paralizza l’osservatore davanti alla straordinarietà della bellezza; in cerca di quelle voci, profumi, suoni e colori oggi sopraffatti dal disordinato incedere di truppe ciabattate e sguaiatamente rumorose, più attente alla birretta stretta come una fiaccola tra le mani, che non alle straordinarie meraviglie che le circondano.
La bellezza è fatta di misura. Così come trascende nel volgare il volto di una donna che eccede nel truccarsi, ugualmente può diventare sgradevole e insignificante la più bella tra le città d’arte, quando è vissuta come un outlet da folle che hanno per solo metro di confronto i grandi mall e le tante disneyland nel mondo.
No. La quantità non si addice al turismo, non meno di quanto le grandi navi da crociera si addicano ai canali di Venezia, o le folle da stadio alla grotta di Altamira. Accanto alla quale, visitabile solo su prenotazione, ne è stata provvidenzialmente scavata una copia falsa, ad uso e consumo del turismo da selfie, incapace com’è di distinguere l’originale dall’imitazione ma contenta del fatto che potrà sempre spacciare per autentica la foto scattata nella caverna clonata.
Occorrerà trovare un equilibrio tra il viaggiare elitario dei Goethe, dei Wagner, dei Lawrence, col loro nutrito corteo di portatori e valletti, e il disordinato girovagare di sterminate masse in cerca di facili quanto precostituite esperienze.
E continua a stupire il fatto che lo stimolo a viaggiare sia assai più potente oggi – quando non c’è scritto o immagine o filmato che non sia immediatamente rintracciabile in rete, pronto per esser esplorato dalla scrivania di casa – che non al tempo in cui quelle visioni erano indisponibili ai più, se non attraverso qualche raro dipinto o incisione. Spesso infedele e sempre di difficilissimo accesso.
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