Ci si attenderebbe una risposta adeguata da parte dello Stato, e dunque dalle tre istituzioni che ne incarnano i poteri: Parlamento, Governo e Magistratura.
La Magistratura ha fatto la sua parte: ha indagato e incriminato i presunti responsabili. Missione not-impossible, dal momento che i criminali agiscono ormai alla luce del sole, sicuri dell’impunità.
Il Governo ha invece accusato la Magistratura del consueto attacco «a orologeria»: se non avesse sollevato il tappeto, nessuno avrebbe notato la sporcizia. Che fa tanto brutto, specialmente quando si attendono gli invitati alle urne: molti dei quali già poco intenzionati a prender parte alla festa e adesso più che mai orientati a restarsene a casa.
Il Parlamento, dopo un primo lungo assordante tacere, ha infine proposto a gran voce la cura (per passata esperienza, più perniciosa della stessa malattia) e, fuor dalla manica, ha cacciato l’asso di denari. Molti denari.
«Occorre reintrodurre il finanziamento pubblico dei partiti!»
Tradotto: se i politici rubano è solo perché quel che entra nelle loro tasche (indennità, gettoni, consulenze, libri...) non è sufficiente a ripagarne le spese elettorali. Ergo, se non volete che siano le mafie a finanziare i partiti, fate in modo che sia lo Stato a farlo.
Come dire: se vi dà fastidio vedere tanta pubblicità in televisione, pagate il canone a una tivù di Stato, così che essa possa mantenersi senza le invadenti elargizioni dei privati. E tuttavia la Storia insegna che il finanziamento pubblico della televisione statale non soltanto non ha ridotto l’invasione pubblicitaria, ma neppure ha garantito quella pluralità di voci auspicata e promessa.
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Il finanziamento pubblico dei partiti fu originariamente proposto in Italia dalla Democrazia Cristiana, nel 1974.
Approvato a razzo da tutto il Parlamento (unica eccezione il Partito Liberale, di nome e di fatto) le buone intenzioni del provvedimento furono immediatamente sbugiardate dal successivo esplodere degli scandali Lockheed (1976) e Sindona (1979).
Un referendum abrogativo venne immediatamente proposto dai Liberali, senza però raggiungere il necessario numero di firme.
Un altro referendum, richiesto nel 1978 dal Partito Radicale, vide prevalere i NO.
Nel 1981 il finanziamento ai partiti fu addirittura raddoppiato, ma con obbligo di pubblicazione del bilancio annuale: norma ben presto scavalcata con la creazione di «fondazioni» fin troppo vicine ai partiti.
Un nuovo referendum, proposto nel 1983 dai Radicali e dal comitato Mario Segni, sancì finalmente col 90,3% dei voti la definitiva cancellazione del finanziamento pubblico ai partiti.
Ad essi venne comunque garantito un rimborso delle spese elettorali (1999) e la possibilità per i cittadini di donare al partito il 4‰ del reddito (1997).
La successiva legge Monti (2013) cancellò i rimborsi elettorali e ridusse al 2‰ la scelta in sede di dichiarazione IRPEF, introducendo in cambio la detrazione fiscale per le donazioni volontarie effettuate a favore dei partiti.
Il finanziamento pubblico ai partiti, morto e sepolto dopo breve e non illustre vita, minaccia oggi d’esser resuscitato a gran voce da uno stuolo di fedeli in cerca di facili elemosine.
Anche i morti, a volte, ritornano. E per uno che si rivela essere un Dio, milioni di altri non sono che zombie. E il finanziamento pubblico ai partiti minaccia d’esser uno tra questi: un mostro destinato a produrre ulteriori danni, piuttosto che sanarli.
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L’inopportunità di un finanziamento pubblico ai partiti sta già nel nome, vero e proprio ossimoro.
Se la parola «partito» significa «di parte», e dunque libera associazione nata per portare avanti il progetto politico di una sola parte, perché mai essa dovrebbe esser pagata con denaro «pubblico», ossia non di parte ma di tutti?
Con i soldi di tutti già si pagano le istituzioni (di tutti). I partiti (di alcuni), se li paghino i loro iscritti. Pochi o molti che siano.
«Ma la politica ha un costo!», è la pronta obiezione dei faccendieri bramosi di trasformare istantaneamente ogni idea – raglio o ruggito che sia – in denaro sonante.
Certamente la politica ha un costo. Ma la politica non si fa nei partiti, che si limitano a discutere, elaborare e proporre idee, ma in quelle istituzioni (di tutti) che poi le pongono in essere. E queste, dal Parlamento al Governo alla Magistratura, sono da sempre interamente finanziate dallo Stato.
L’unica spesa esterna alle istituzioni, interamente sulle spalle dei partiti (o meglio: dei candidati), è forse quella elettorale. Ma la Storia ci racconta che persino quando i partiti avevano le pezze ai pantaloni, le elezioni si son sempre fatte. E chi non aveva i mezzi si affidava ai contributi volontari dei parlamentari e degli iscritti, o strillonava «L’Unità» sulle piazze la domenica, o arrostiva salsicce nelle feste popolari che si fregiavano del medesimo nome.
Ci si arrangiava. E se ci si riusciva allora, quando l’accesso alla radio era per pochi e le affissioni costavano un patrimonio, ancor meglio ci si può arrangiare oggi, quando da un telefonino tascabile chiunque può comunicare gratuitamente – in video, in parole o in immagini – con tutti gli abitanti di questo ed altri limitrofi pianeti.
Sempre che abbia qualcosa da dire. Questo sì, un bene sempre più raro e prezioso.
Un vero partito dovrebbe essere orgoglioso nel sapersi in grado di badare a se stesso, come ogni adulto appena liberatosi dalla paghetta e pronto ad assumere il costo e la responsabilità delle proprie azioni, finalmente e completamente libere.
Un partito che pretenda di essere allattato all’infinito dal biberon di Stato (al quale attingono anche i suoi più acerrimi nemici) neppure avrebbe alcuna ragione d’esistere, perché «partito» – ossia «di parte» – in realtà non sarebbe. Ma se anche una ragione la trovasse, sarebbe comunque indegno del voto degli uomini liberi.
Come certi partiti d’un tempo, usi per mantenersi in vita a succhiare oro alla patria, a provocare i vicini, a sottomettere i più deboli.
Partiti a cui la Storia ha cancellato per sempre ogni possibile futuro.
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