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Naturale, artificiale o...?

I meccanismi su cui si fonda l’intelligenza artificiale non sono poi così differenti da quelli che regolano i sogni o qualsiasi altro processo creativo. 

Il sogno ricompone in forme nuove ed imprevedibili elementi consciamente o inconsciamente assorbiti dalla realtà. Luoghi, persone, avvenimenti, sentimenti reali si vestono d’altre forme e si combinano tra di essi in forme solo apparentemente inedite, ma in realtà interpretabili e leggibili da chi ne possieda la chiave. Freud insegna. 

Al medesimo modo agiscono i meccanismi della creazione artistica, quando il pittore o lo scultore dà vita ad immagini inedite a partire da elementi osservati nel mondo circostante, o anche soltanto nella propria immaginazione. 

Similmente, ogni grande o piccola invenzione nasce da una nuova combinazione di elementi già noti, sulla base di un’idea originale: un coltello sulla punta di una canna diventa una lancia; il rame fuso con lo stagno diventa bronzo, il motore a vapore applicato alla carrozza dà vita all’automobile.    

Se dunque i processi che stanno all’origine dell’intelligenza artificiale son così simili al sogno o all’invenzione, frutto dell’intelligenza naturale, si può aver paura di un sogno? Si può avere paura di un’invenzione? 

Apparentemente sì. Se il marito sogna in modo ricorrente di uccidere la moglie, bene fanno a preoccuparsene entrambi. La seconda più del primo. E così lo scienziato che inventi una nuova arma di distruzione di massa. 

Quel che realmente deve suscitare paura, in definitiva, non sono il sogno o l’invenzione di per sé, quanto le loro successive implicazioni e applicazioni. La cui responsabilità ricade unicamente sulle persone alle quali competerà infine decidere se, come e quando trasformare un progetto in opera compiuta.

La stessa intelligenza artificiale, dopotutto, altro non è che un’ulteriore invenzione dell’intelligenza umana. Alla quale spetta infine il decidere che farne. 

Esistono lavori intellettuali ripetitivi da tempo soppiantati dalle macchine. La stessa parola computer nasce dal latino computista, qualifica che ancora pochi decenni or sono indicava quella particolare categoria di impiegati addetti ai calcoli. Ogni grande attività commerciale, a fine giornata, metteva all’opera decine di addetti, se non centinaia, per sommare scontrini e fatture dell’intera giornata, quindi ricontarli e poi ancora verificarli. Uno spreco di intelligenza naturale oggi vantaggiosamente sostituita da processi automatizzati.   

Allo stesso modo un lettore di codici in grado di verificare la validità di un titolo di viaggio ha sostituito il controllore sull’autobus. Un sistema intelligente di videosorveglianza riconosce l’aspetto delle persone inquadrate attingendo a una banca dati ben più vasta della memoria di un solo guardiano. E così operano i lettori di targhe automobilistiche, che restituiscono all’istante ogni dato relativo a quel mezzo, dall’assicurazione alla proprietà. 

Si tratta di applicazioni di intelligenza artificiale che hanno liberato l’umanità da lavori meccanici e umilianti, non meno di quanto il motore a vapore abbia liberato l’asino dal suo eterno girare intorno alla mola.

Eppure, nonostante tante positive premesse, gli attuali sviluppi dell’intelligenza artificiale paiono aver posto in allarme fin troppe intelligenze naturali. O sedicenti tali.

Molti operatori intellettuali temono di veder ridotte le loro prospettive di lavoro, incalzati dalle macchine come già accadde al lavoro manuale durante l’età industriale. 

Saranno tuttavia i compiti più meccanici e ripetitivi a scomparire, per lasciar spazio a quelli più gratificanti e creativi. Ha oggi un senso impegnare un giornalista nell’ingrato compito di tener aggiornati i «coccodrilli» (le biografie dei personaggi famosi, pronte per esser pubblicate in caso d’improvvisa scomparsa) quando un programma di intelligenza artificiale potrà comporli in pochi secondi nel momento stesso in cui dovessero servire? Già è scomparsa la triste figura del praticante incaricato di redigere la pagina degli spettacoli televisivi, operazione sostituita da pochi minuti di ricerca in rete, o dell’aspirante cronista sportivo condannato un tempo a redigere calendari e classifiche, operazioni oggi del tutto automatizzate. 

La fine di ogni lavoro noioso, faticoso e ripetitivo non può che rappresentare un progresso. 

Chi teme l’intelligenza artificiale sottolinea ancora i pericoli insiti nelle possibilità che ha quest’ultima di realizzare dei falsi quasi perfetti, tanto nei testi che nelle immagini. Ma l’arte di creare il falso esiste da sempre, e da sempre l’uomo ha imparato a difendersene. Se i falsi saranno sempre più perfetti, come del resto nuove macchine e nuove tecniche han già reso possibile per quanto riguarda il denaro o le imitazioni di articoli di lusso, anche la mente umana, intelligenza naturale, non potrà che evolversi e farsi più scaltra e più attenta. E sarà un ulteriore progresso. 

Un’altra obiezione è il timore che l’intelligenza artificiale possa un giorno prendere il sopravvento sull’uomo, fino a dominarlo e comandarlo. Timore non dissimile da quello che, alle origini dell’età industriale, spinse i luddisti ad assaltare i treni che attraversavano le campagne e a distruggere le fabbriche coi primi telai meccanici. 

Molti sono i racconti che narrano di mondi in cui i robot si impadroniscono del potere, ma si tratta di automi antropomorfi più simili alle prime macchine industriali che non agli attuali computer: dotati di straordinaria forza ma di poca o nessuna intelligenza. Oggi che le macchine sono pienamente integrate e ovunque accettate come indispensabili e irrinunciabili compagne della vita quotidiana, i nuovi mostri spaventano più per la loro forza intellettiva che non per quella materiale. La fantascienza, presto adeguatasi, narra adesso di esseri privi di corpo e dotati di solo cervello, immobili ma in grado di sommuovere l’intero universo. 

Ma si tratta appunto di fantasie.

Così come la macchina industriale obbedisce a chi preme il bottone che la aziona, anche l’intelligenza artificiale risponde chi digita sulla tastiera. Ordinate a una ruspa di distruggere un palazzo, anziché costruire una strada, e quella eseguirà. Ordinate a un programma di intelligenza artificiale di bloccare le centrali elettriche di una nazione nemica, e quella eseguirà. Solo dalla mente umana può nascere il bene o il male, il giusto o l’errato. La macchina non può far altro che amplificarne gli effetti, seppure su dimensioni che oggi potremmo definire planetarie. Ma non sarà mai in grado di prendere decisioni autonome, e neppure di creare il nuovo. Parlerà tutte le lingue ma non saprà inventare nuove parole, un nuovo slang. Conoscerà la Storia fin nei minimi dettagli, ma non potrà crearne di nuova. Accumulerà dati e conoscenze, ma non saprà come fecondarli e farne nascere ciò che ancora non esiste. Sarà, in definitiva, un’ulteriore estensione delle capacità umane, come fu un tempo il remo un’estensione delle mani, il cannocchiale un’estensione della vista, l’altoparlante un’estensione della voce.

Ordinate a un programma AI di comporre una poesia o una sinfonia, e ne resterete delusi: banalità, nel primo caso, cose già udite, nel secondo. Né il jazz né il rock sarebbero mai potuti nascere, senza la libertà di deragliare dai binari verso direzioni opposte e contrarie, per loro stessa definizione improgrammate e improgrammabili. L’intelligenza artificiale starà sempre dalla parte del prevedibile, mai dell’imprevisto. 

Si può dunque aver paura di chi procede in modo tanto lineare osservando una regola, per giunta sapendo che quella regola è stata elaborata e imposta da un essere umano come noi?

Solo pensarlo, è pura fantascienza. O ignoranza. O malafede. 


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