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Gli attaccabrighe

Che il ruolo del perseguitato paghi, è materia che ogni forza di opposizione ben conosce. 

Puntare il dito contro un «oppressore», vero o immaginario che sia, non può che suscitare nell’immediato la generale simpatia di chi per diversi motivi si senta «oppresso»: o perché lavora alle dipendenze di qualcun altro, o perché costretto a pagare le tasse («pizzo di Stato»?), o perché schiacciato da indebitamenti sproporzionati rispetto alle proprie possibilità. 

Scaricare le colpe su qualcun altro è sempre più facile e appagante che non guardarsi allo specchio per esaminare e riconoscere le proprie. 

Più difficile dovrebbe essere impersonare il ruolo di «oppresso» per una forza politica che il caso, la fortuna o la Storia han proiettato ai vertici del Paese, per giunta con una solida maggioranza sia al Governo che in Parlamento. Se nessuno sta più in alto di essa, dove si potrà mai scovare (o inventare) un «oppressore»?

Pare impossibile, ma i ben addestrati italici piagnoni, gli albertisordi del terzo millennio, ci riescono alla grande: che si tratti dell’indimenticata sinistra «di lotta e di governo», autocondannatasi a combattere contro se stessa, o della nuova destra «di grida e di saccoccia», dedita a spararle sempre più grosse per far sì che la cagnara sui massimi temi nasconda alla vista gli assai meno commendevoli traffici, dai regali ai balneari agli appalti facili, dall’occupazione di aziende pubbliche al sostegno agli evasori.

Impossibilitati a trovare credibili «oppressori» sopra di sé, il nuovo governo li cerca altrove. In altri luoghi («l’Europa!»); in altri tempi («chi c’era prima!»); in altre posizioni: se non proprio sopra, accanto. Come nella Magistratura. 

Così, mentre una leggina che limita i casi di responsabilità personale degli amministratori locali procede tutto sommato in discesa, con parte dell’opposizione che vota a favore, un’altra sostanzialmente neutrale e una terza che mostra i denti, il ministro della Giustizia, pur di alzare il livello della cagnara, non esita a reagire scompostamente alle comprensibili perplessità dell’Associazione Nazionale dei Magistrati, declassandone le legittime critiche a indebite «interferenze». 

«Vedere che il maggiore partito dell’opposizione si spacca in due, per noi è un risultato importante», ha sguaiatamente affermato il ministro della Giustizia, denudando in tal modo il suo pensiero: la convinzione che un governo debba servire la politica, piuttosto che la Nazione. Come ha invece diversamente giurato al momento della nomina.

Che Governo e Magistratura, rispettivamente secondo e terzo potere dello Stato, abbiano qualche momento di frizione, è un fatto non soltanto previsto, ma addirittura auspicato dalla Costituzione, la quale parla di poteri «separati» dello Stato, non di culo e camicia come troppi partiti invece vorrebbero. Su tale separazione si basa dopotutto il controllo reciproco tra i poteri, e se ce n’è uno tra essi che appare talvolta in qualche misura debordante, questo non è certo la Magistratura ma il Governo, che da troppi anni tende a legiferare sovrapponendosi al Parlamento con l'abuso di deleghe, voti di fiducia, provvedimenti d’urgenza, disegni di riforma. 

Parte degli attriti tra Governo e Magistratura deriva anche dal fatto che l’amministrazione della Giustizia è costituzionalmente divisa tra il primo (che per mano dell’omonimo Ministero ne decide norme, procedure, dotazioni e strumenti) e la seconda, che dà applicazione a quelle leggi che il Parlamento delibera e che il capo dello Stato promulga. 

Buona parte del malfunzionamento della Giustizia non è in alcun modo imputabile alla Magistratura, quanto piuttosto al Governo. Perché se è vero che cantar messa è compito del Magistrato, costruire la chiesa e addobbarla con banchi, altari, messali, chierici e microfoni è compito del Governo. Così come il dovere di scrivere leggi univoche e giuste ed emendare quelle sbagliate e incerte è compito del Parlamento. 

Tuttavia, in virtù di quella regola non scritta per cui anche chi comanda è «oppresso» (e la colpa è sempre di un altro), Governi e Parlamenti di ogni colore hanno accreditato nel tempo tra il popolo ignaro la convinzione che ogni stortura emersa in ambito giudiziario sia da addebitare alla Magistratura. Accusata persino – e da che pulpito! – di essere «politicizzata». 

La quale Magistratura di altri poteri non dispone se non quello di applicare pedissequamente la legge. Giusta o sbagliata che sia, come il Parlamento impone. Servendosi di quelle strutture più o meno funzionali, più o meno inefficienti, che il Governo mette a disposizione.

Per troppo tempo i Magistrati son stati obbligati a redigere i loro atti a mano, con penna e calamaio; per troppo tempo i Palazzi di Giustizia son rimasti sguarniti di personale; per troppo tempo l’informatica è stata tenuta da quei luoghi più lontana dello stesso crimine. Col dito puntato ogni volta sempre e solo sulla Magistratura. Unica responsabile, tra l’opinione pubblica, di una Giustizia lenta, inconcludente, farraginosa, e conseguentemente ingiusta e inefficace. 

Occorre che ciascuno sia richiamato alle proprie responsabilità. Esistono leggi demenziali e inapplicabili (last but not least quelle sul rave o sui blocchi navali) ed esistono strutture vecchie, sottodimensionate e inadeguate, così come possono anche esistere giudici di dubbia imparzialità. 

A ciascuno le proprie colpe. Ripartendo le quali, tuttavia, quelle della Magistratura appaiono decisamente minime, se non nulle, rispetto alle molte dei restanti due poteri dello Stato. 

Quelli sì, politicizzati. Forse oltre misura. 

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