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Inizia la pacchia

Che gli appalti nei lavori pubblici fossero carburante per ogni sorta di mafia e sottomafia, non meno di quanto l’energia e i rifiuti urbani lo siano per la ’ndrangheta, è cosa da tempo nota, come ben sanno le migliori imprese italiane, costrette da anni ad operare all’estero per manifesta impossibilità di vincere le gare bandite in patria. 

Come mai potrebbe, in Italia, un’impresa con duecento dipendenti proporsi ad un prezzo più basso di quelle che ne han soltanto due, e talvolta neanche quelli: occupandosi soltanto di passare il lavoro ad altri in un giro infinito di subappalti? Sapendo di poter impunemente terminare in otto o dieci anni quel che un’impresa seria porterebbe a compimento in un mese?

Le grandi società italiane han realizzato a tempo di record intere reti stradali, scuole, quartieri, metropolitane, ospedali in Marocco, in Grecia, in Kosovo, in Albania e in ogni parte del mondo, ma in Italia non possono neppure sperare d'esser chiamate a rappezzare un metro di marciapiede. Perché c’è e ci sarà sempre chi offrirà in busta cifre ridicolmente basse, confidando poi su qualche manina amica pronta a certificare ogni sorta di impedimento ai lavori e la conseguente revisione al rialzo degli importi precedentemente concordati.

Così i tempi di realizzazione si allungano e la qualità dei manufatti scade sotto ogni limite di decenza, tant’è che si può con certezza affermare che non esiste al momento in Italia un solo chilometro di strada realizzata a regola d’arte, priva di buche, rampe franate, asfalti screpolati, scalini e avvallamenti, o un edificio scolastico di qualità comparabile non solo a quel che di meglio si costruisce oggi all’estero, ma neppure ai pregevoli ed eleganti fabbricati delle vecchie scuole del Regno.

Lavori malfatti, tempi biblici e costi decuplicati sono lo standard delle opere pubbliche in Italia. Con gran soddisfazione e profitto dei tanti che ci mangiano intorno: faccendieri, imprese-lampo, corruttori. E del folto esercito dei burocrati che ne raccoglie le briciole: il male immobile che vive di bene immobile.

Il sistema ha sempre magnificamente non-funzionato all’imperfezione, finché non è apparsa all’orizzonte la minaccia delle minacce: il Piano Nazionale di Resistenza e Resilienza, che può essere in tal modo riassunto: noi (l’Unione Europea) pur di innovare il vostro Paese siamo pronti a darvi più soldi di quanti non ne abbiate mai visto in vita (oltre duecento miliardi di euro); voi, però, dovrete dimostrarci di saperli spendere nei modi e nei tempi all'uopo concordati.  

Mai proposta fu più temuta! L’Italia sa benissimo come spendere i soldi che non ha, indebitandosi. Ma ha sempre evitato di spendere quelli che possiede, preferendo spartirseli. 

Posto di fronte a tanta responsabilità, il governo è andato nel pallone, e dal pallone è uscita una sedicente «riforma» del sistema degli appalti che è in realtà il suo de profundis: non un insieme di nuove regole, ma la fine di ogni regola: mangi chi può, purché alla svelta. Perciò basta gare per lavori sotto i 5,4 milioni di euro, procedure concordate sopra i 150.000 e affidamento diretto ad amici o parenti al di sotto di quella cifra. 

Con l’aggravante che tanta deregulation, pensata forse per accelerare la consegna delle opere, finirà invece col ritardarla ed aumentarne il costo. Perché non pochi saranno tentati di frazionare i grandi appalti in altri più piccoli, così da evitare l’obbligo della gara. 

Eppure nel resto del mondo esiste un semplicissimo sistema per velocizzare la fine dei lavori, che consiste nel subordinarne il pagamento alla consegna puntuale dell’opera. Se questa non dovesse esser terminata entro la data stabilita, o la qualità si rivelasse discordante con quanto statuito nei capitolati d’appalto, nessun pagamento sarà dovuto e quanto parzialmente e/o malamente realizzato resterà nella disponibilità dell’appaltatore, che ne affiderà ad altri il completamento. 

Tutto qui. 

Nella lingua di Totò e De Filippo: prima vedere cammello, poi pagare. Senza adeguamenti in corso d’opera. Senza rimodulazione delle date di consegna. Senza ridefinizione dei costi. E se qualche imprevisto in corso d’opera dovesse realmente manifestarsi, sarà cura dell’appaltatario prevenirlo, stipulando a tempo debito un’assicurazione in merito. 

Di fronte a una data di consegna certa e ineludibile, l’impresa con duecento operai potrebbe finalmente aver la meglio su quella con due, e completare i lavori in tempi cento volte più brevi. E l’impossibilità di accedere in tempi successivi a variazioni di spesa al rialzo terrebbe ben lontani faccendieri e malintenzionati. 

Troppo facile? 

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