Il sentimento del contrario genera il comico, ricordava Pirandello, e il pubblico boccalone abbocca. Schiude le labbra in un mezzo sorriso e ingoia l’esca con tutto l’amo. Beandosi del fatto che «la Storia non ha nascondigli», per dirla con De Gregori, e che «rubano tutti alla stessa maniera». E che la protagonista dei due opposti filmati abbia comunque mentito: se non nel primo, nel secondo. O viceversa.
Ora, a parte il rimpianto per quei cinquanta euro (divenuti ormai centosettanta, per un’auto degna del nome), chi la Storia la conosce e non si limita a cantarla poco o nulla si stupisce nell’osservare la passata melona così piena di sé (con l’accento) trasformarsi in una melona piena invece di se (senza accento), le ostentate sicurezze generare malcelati dubbi, gli stivali mutarsi in tacco quindici, le corde vocali allentarsi e i ruggiti sciogliersi in pacifici belati.
Non è qualcosa che riguarda soltanto lei, ma chiunque abbia vinto la propria battaglia e si ritrovi poi a doverne amministrare il risultato.
C’è un tempo di guerra e c’è un tempo di pace. E persino il Napoleone condottiero, così pieno di sé sui campi di battaglia, finì col ritrovarsi pieno di «se» quando poi chiamato ad amministrare da imperatore gli innumerevoli territori conquistati.
Non c’è guerra più difficile della pace.
La guerra è questione di muscoli, dove la ragione è sempre di chi vince; la pace è questione di pensiero, dove vince chi della ragione sa far miglior uso.
Costruire la barca costa certo ingegno, dedizione e fatica. Ma navigarci sopra richiede abilità, competenza, conoscenza, coraggio. E buone carte, buoni consigli, buona ciurma.
La guerra parla una sola semplice lingua: l’urlo belluino dei Pellerossa, lo squillo della tromba, il suono delle cornamuse, il rullare dei tamburi.
La guerra uniforma con le sue uniformi: le facce dipinte dei primitivi, le maschere degli Africani, le divise degli eserciti.
La guerra non ha che una sola bandiera, per la quale vivere o morire.
La pace parla invece molteplici lingue, incluse quelle di chi la guerra l’ha persa. La tela delle divise, non più uguale per tutti, si declina in molteplici forme, dalle ruvide stoffe di chi fatica ai soffici tessuti di chi può permetterseli. E nuove e vecchie bandiere sventolano insieme accanto a quella del vincitore.
Nulla di cui stupirsi se la melona di pace è cosa diversa della melona di guerra: l’albero lo si abbatte a colpi d’ascia, ma il legno lo si intaglia poi con sgorbia e cesello.
Compito di una seria opposizione dovrebbe esser quello di esercitare un attento controllo su quel lento e delicato lavoro di costruzione e rifinitura, criticando e proponendo alternative, prevenendo eventuali errori, denunciando incapacità ed abusi. Preparandosi a subentrare nell’opera, quando riuscisse a convincere i più della superiorità del proprio progetto.
Limitarsi all’uso esplicito o mascherato della satira, i cui effetti non possono andar oltre un consolatoria risata, non serve a far crescere il Paese e neppure a delegittimare gli avversari, più che legittimati dal risultato elettorale.
Somiglia piuttosto all’atteggiamento (in tivù c’è chi direbbe «postura») di quei vecchietti girapollici dediti nelle belle giornate di sole all’osservazione dei cantieri stradali, capaci solo di biasimare, sminuire, deridere, narrandosi a vicenda quanto meglio avrebbero potuto svolger essi quel compito, se solo fosse stato affidato loro, e di come si lavorasse meglio ai tempi della loro ormai perduta gioventù.
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