Incapace di progettare una cura o un vaccino efficace, la Cina non ha saputo offrire altro rimedio al contagio se non un durissimo lockdown, che rinchiude milioni di abitanti in case alveare recintate per l’occasione da barriere alte due metri. Misure forse giustificabili tre anni fa, al primo insorgere di un virus ignoto, privo persino di un nome, ma oggigiorno a dir poco prive di senso.
Non soltanto perché son sotto gli occhi di tutti gli ottimi risultati conseguiti da quei Paesi che han scelto la via delle campagne vaccinali di massa, quanto per il fatto che la graduatoria ufficiale dei decessi relega la Cina tra i Paesi in assoluto meno colpiti al mondo: felicemente situato alla 220ª posizione su un totale di 229.
C’è chi ovviamente dubita dell’esattezza di quel dato, sostenendo che la Cina possa aver barato e tenuto per sé i numeri reali. Ma la cifra è talmente irrisoria che se anche la si dovesse moltiplicare per dieci, per cento o addirittura per mille, la situazione della Cina risulterebbe comunque ben lontana da quella dei Paesi più colpiti.
Basterebbe quanto appena detto per giustificare il clima di ribellione che va pian piano montando in ogni angolo della Cina, con la domanda che ogni Cinese pone a se stesso: perché solo noi, sostanzialmente immuni, confinati in minuscole case o sbattuti nei lazzaretti, e il resto del mondo, con dati mille volte superiori ai nostri, a passeggio o in vacanza?
Se poi all’impotenza mostrata in ambito sanitario si somma l’insoddisfazione per un’economia che pare aver arrestato la propria corsa, vuoi per la saturazione dei mercati, vuoi per il momentaneo aumento dei costi energetici, è facile intuire cosa spinga tanti milioni di Cinesi in piazza. E le conseguenti paure del regime. «Basta una scintilla per incendiare una prateria», pare fosse solito affermare il Grande Timoniere. Figurarsi migliaia di petardi che scoppiano simultaneamente in ogni angolo dell’Impero.
Anche le scatole cinesi, nel loro piccolo, talvolta si scassano. E i segnali che arrivano oltreconfine raccontano storie di crescente intolleranza. Sia da parte della popolazione, che inciccia le dimostrazioni antilockdown con contenuti esplicitamente antigovernativi, sia ad opera dell’esercito, che sequestra i telefonini alla ricerca di app «occidentali» e foto compromettenti, arrestando i manifestanti e impedendo ai giornalisti stranieri di svolgere il loro dovere.
Così, per salvare la pelle, i dimostranti han preso a innalzare a mo' di cartelli dei fogli rigorosamente bianchi, versione visual non così dissimile da quel bavaglio ostentato un tempo in Italia, in segno di protesta, da Pannella e dai suoi seguaci: non ci fanno parlare, non ci fanno scrivere o mostrare.
Ma la presenza di un governo autoritario – forse il solo possibile, in un contesto geografico di quelle dimensioni – non è ancora una spiegazione sufficiente per comprendere la reale natura del movimento in atto, che è da ricondursi in parte all’attuale fase evolutiva dell’età industriale nel mondo: morta e sepolta in Occidente sin dalla fine del secolo scorso, oggi in piena evoluzione in India, da qualche tempo giunta a piena maturazione in Cina.
Anche in Occidente, dopo un momento iniziale che ha visto l’inurbamento di grande masse contadine spinte a lavorare con turni massacranti e paghe da fame, subentrò in pochi decenni tra gli operai una precisa coscienza di sé, una maggiore consapevolezza del proprio ruolo e una conseguente rivendicazione di migliori condizioni di vita, di piena dignità, di rappresentanza sociale.
Se l’industria migliorava di anno in anno la qualità dei propri prodotti, perché mai non avrebbe di pari passo potuto e dovuto migliorare la qualità della vita di chi li fabbricava?
Così in effetti avvenne. Quando l’offerta di prodotto superò la domanda, una sorta di tacito accordo fra le parti fece sì che i salari operai crescessero in misura bastante affinché i produttori si trasformassero anche in consumatori, con reciproco vantaggio. Automobili ed elettrodomestici entrarono nelle case più povere, insieme alle ferie retribuite, e si accese la speranza di una vita migliore. Non disgiunta da una diffusa domanda di più ampie libertà, come testimoniano le coeve battaglie contro ogni discriminazione, contro l'invadenza della Chiesa, contro la censura cinematografica, contro l'elitarismo nell'università e nella scuola...
A che pro possedere un’auto e poter disporre di un mese di ferie, se è nel contempo proibito muoversi, viaggiare, incontrarsi, discutere, scambiarsi lettere o scegliere a quale spettacolo assistere?
Ecco. Forse la Cina è giunta a quel punto evolutivo dell’età industriale. È migliorato il prodotto, son migliorati i produttori. È arrivata la Seicento, la casetta, qualche risparmio e più tempo per sé. Che altro desiderare, se non quel minimo di libertà indispensabile per goderseli? L'irrefrenabile desiderio di un atteso quanto doveroso open up, in luogo di un inutile quanto inefficace lockdown?
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