Poi ci son quelli che i problemi li risolvono in un istante (coi soldi degli altri): la paghi lo Stato, la differenza tra il prezzo del gas nel 2021 e quello – moltiplicato per quindici – del 2022!
Non sono da meno i pusillanimi, sicuri che basti mutar bandiera e inchinarsi davanti a Putin, con la giusta angolazione e a brache calate, per godere di rifornimenti gratuiti vita natural durante. E pazienza se l'entità di quel «durante» sarà Putin stesso a deciderla.
Seguono gli illusi, fermamente convinti che sia sufficiente rimettere in uso i mulini a vento e sostituire le tegole con celle solari per far marciare a pieno regime fonderie, acciaierie, industrie e vetrerie. Con quantità di energia buone appena per ricaricare il telefonino o tener acceso il frigorifero. Sempre che tiri il vento e splenda il sole.
Non son da meno gli egoisti: quelli che il rigassificatore sì, ma quant’è brutto da vedere. E quanto sarebbe meglio ormeggiarlo davanti al porto di qualcun altro.
E che dire delle anime nobili che inorridiscono davanti all’aggettivo «nucleare»? Senza chiedersi quale altra fonte di energia al mondo potrebbe al momento sostituire, con pari potenza, il carbone o il gas? Pura ipocrisia, d'altronde, se si pensa che molte centrali nucleari francesi son costruite in Italia, che poi ne importa a caro prezzo l’energia prodotta. Come dire: ti vendo la mucca, che qui da noi sporca e puzza un po’, e poi ti compro il latte. Roba da signori. Se fosse da signori l’indebitarsi a vita.
Sempre meglio degli allegri passatisti: quelli del «Checcevò? Riapriamo le miniere di carbone e al diavolo le transizioni!». Come se la quantità di carbone, che già cominciava a scarseggiare in un pianeta abitato da un miliardo di persone, si fosse miracolosamente rigenerata ora che c’è da accontentarne invece otto miliardi.
La questione energetica è seria, e merita di esser trattata seriamente. Il prezzo del gas ha iniziato la risalita qualche mese prima dell’invasione russa, sotto la spinta dei maggior consumi della Cina, diligentemente intenzionata a ridurre l’uso di petrolio e carbone. Le minacce belliche hanno certamente accelerato il processo, con la comprensibile corsa dei Paesi industrializzati (Italia in testa) all’accaparramento, mentre i non velati ricatti Gazprom (ora te lo do, ora non te lo do) hanno ulteriormente peggiorato la situazione.
Inutile soffermarsi a discutere su quale possa essere la miglior strategia di difesa, a un mese di distanza da elezioni che in ogni caso ribalteranno l’attuale assetto parlamentare in Italia. Sarà quel che sarà. Restano tuttavia la bontà della strada fin qui percorsa (stoccaggio invernale, nuove forniture, aumento della capacità estrattiva, accelerazione sulle rinnovabili) e la sempre più pressante necessità di un coordinamento a livello continentale che rende ormai improcrastinabile la costruzione di un vero Stato federale europeo, dotato di poteri legislativi, esecutivi e giudiziari sulle materie di interesse comune. Come quella energetica indubbiamente è.
Ma un fatto è già oggi incontrovertibilmente a tutti chiaro: il sogno di un'economia globalizzata, pacificamente gestita da trattati fra nazioni responsabili, è tragicamente naufragato. La delocalizzazione spinta ha dato vita a monopoli di fatto – come il gas russo o le introvabili mascherine cinesi all'esplodere della pandemia – che conferiscono a chi li controlla un potere sproporzionato sul resto del mondo. Chi pensava di delocalizzare nelle grandi e inutilizzate aree desertiche praterie di pannelli solari in grado di alimentare interi continenti, deve oggi interrogarsi sulle tentazioni espansionistiche di quelle nazioni che dovessero improvvisamente ritrovarsi tra le mani il potere di staccare la spina. O – è il caso russo – di chiudere il rubinetto.
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