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Dolce far niente

Qual è il lavoro degli angeli? 

È curioso osservare come per millenni intere generazioni si siano arrovellate intorno al sesso degli angeli, ma pochi si siano interrogati su quale fosse in realtà la nostra principale occupazione. 

Alcuni han provato piacere nel dipingerci compunti ad accompagnar con l'arpa cori di voci bianche ordinatamente disposte in angeliche cerchie, altri come svolazzanti messaggeri del Cielo, tanti ancora come invisibili (e gratuiti) gorilla addetti alla personale sicurezza di ciascun credente, non pochi come trombettieri armati di opposti eserciti in battaglia, fino alle più moderne concezioni social-utilitaristiche che ci han visto protagonisti in tanti film nel ruolo ora di eroici raddrizzatori di torti subiti, ora di provvidenziali salvatori di anime sull'orlo dell'abisso. 

Ci dispiace per gli umani, che ci vorrebbero in mille e mille e mille faccende affaccendati, ma è spettato ad essi, non certo a noi, esser condannati a guadagnarsi la pagnotta col sudore della fronte. La nostra dieta assolutamente priva di mele, invece, ci ha fortunatamente tenuto alla larga da quella terrificante punizione. 

In Paradiso si fa ben poco, pertanto. O meglio: non si fa assolutamente niente. Altrimenti, che Paradiso sarebbe? 

Questo elementare concetto, ben chiaro a chiunque affigga dietro alla scrivania le foto di esotici atolli nel Pacifico o di solitarie spiagge caraibiche, piuttosto che di buie fabbriche maleolenti e fumanti, mai come di questi tempi ha illuminato le menti di strati sempre più vasti di popolazione. 

— Non si trovano giovani che abbiano voglia di lavorare! — è il grido di dolore di quanti necessitano di menti e braccia, nell'intento di preservare da ogni fatica le loro. E giù catastrofiche previsioni di stagioni turistiche a rischio e ristoranti a un passo dalla chiusura. Quasi che l'aumento dei nullafacenti non fosse invece una benedizione per spiagge, hotel, aperibar, trattorie, discoteche, ristoranti e resort, dove il prodotto in vendita è proprio il far niente.

Il fatto è che in troppi, nel corso di due anni di pandemia, hanno assaggiato il piacere di starsene in casa propria, di lavorare davanti a un piccolo schermo in cravatta, mutande e pantofole, di spararsi due o tre serie televisive in una sola serata, di eclissarsi da una vita sociale spesso forzosa, oltre che noiosa e costosa, risparmiando cifre importanti su vestiario e trasporti. C'è poi chi si è liberato del bivano in centro per acquistare al medesimo prezzo una casa più spaziosa in campagna o al mare, migliorando sensibilmente la propria qualità di vita. 

È un fenomeno che ha preso il via nelle grandi città americane, presto etichettato col nome di Great Resignation: il grande abbandono. Il lockdown ha fatto da detonatore, in tutti quei Paesi dove l'età industriale è serenamente defunta da almeno un paio di decenni, e con essa quell'urbanesimo che della Rivoluzione Industriale fu diretta conseguenza. L'attuale dematerializzazione del lavoro, non più concentrato in un luogo ad esso deputato (la fabbrica), ne ha favorito la delocalizzazione, e con la chiusura di stabilimenti e uffici le grandi (e dispendiose) città vanno lentamente svuotandosi. 

Insieme con l'età industriale, last but not least, scompare anche quel lavoro a formazione zero che ha consentito in passato a milioni di analfabeti in fuga dalle campagne di trovare occupazione in fabbrica. Laddove anche il più umile dei lavori, come il magazziniere o il fattorino, necessita oggi di competenze tecniche, informatiche, comportamentali, linguistiche che richiedono comunque una pur minima formazione di base. Una formazione che il sistema scolastico, lento nell'inseguire i rapidi processi in atto, non è al momento in grado di offrire. 

Così gli oneri formativi restano di fatto interamente a carico del sistema produttivo. Assumere un cameriere significa insegnargli da zero quello che un cameriere oggi dev'essere: non un operaio che faticando per tutta la vita al medesimo (basso) livello si accontenta di ricevere dall'alto una (bassa) paghetta, ma una persona desiderosa di accedere al mondo del catering e di progredire da quel primo (basso) livello verso mete infinitamente più ambiziose. 

Chi ha capito ciò, ha smesso di inseguire una qualsiasi occupazione generica, cercando invece il lavoro taylor made, su misura per le proprie inclinazioni, passioni, aspirazioni, competenze. Si lascia un'attività che non piace per imboccare una propria strada, piuttosto che saltare (job hopping) su un altro lavoro purchessia. 

Non sempre, su questo piano, offerta e domanda si incontrano.

A legger delle reciproche lamentele tra chi intende offrire delle opportunità, prima ancora che un lavoro, e chi invece si accontenterebbe di stipendiuccio e ferie, prima ancora che di un futuro, si coglie la crescente discrasia tra le nuove necessità del lavoro postindustriale, fatto di flessibilità e adattabilità ad un mondo incessantemente mutevole e mutante, e il rimpianto per un lavoro paleoindustriale (morto e sepolto) regolamentato da un do ut des che poi altro non era che la vendita a uno sconosciuto della propria forza-lavoro: tot ore, tot soldi, dall'assunzione fino alla pensione.

Quel che invece dovrebbe esser chiaro a un giovane che si accosti per la prima volta alla divina punizione del lavoro, è che la retribuzione non si compone solo ed esclusivamente di denaro (sterco del diavolo!), ma anche di altri valori come le soddisfazioni e l'apprendistato: il piacere di portare a termine un certo compito e l'opportunità di accrescere le proprie capacità di svolgerlo. 

Se un regista da Oscar offrisse a un appassionato di cinema una posizione da aiuto-regista, chi non accetterebbe di lavorare per lui anche gratis? 

Chiunque. Perché «gratis» in realtà non lo sarebbe. Se la retribuzione in denaro, infatti, è pari allo 0%, la gioia di lavorare accanto a un grande nome è un buon 50%, e un altro 50% è quel che si sarà guadagnato nell'apprendere nuove tecniche di ripresa. 

Ma se quel regista, contento del lavoro prestato, richiamasse per una seconda volta quel medesimo giovane, la composizione della retribuzione dovrà necessariamente variare: un 40% del compenso sarà ora in denaro, un 30% di restanti soddisfazioni e un altro 30% di nuove competenze. 

Se poi il rapporto tra l'affermato regista e l'esordiente allievo dovesse proseguire con successo, quel giovane avrà ormai ben poco da imparare e poco per cui entusiasmarsi, e la retribuzione virerà presto verso un 80% in denaro, un 10% di soddisfazioni e un altro 10% di ulteriori acquisite esperienze. 

Quando infine la ripetitività del lavoro e l'attenuazione di quegli entusiasmi che lo spinsero a sceglierlo faranno sì che il 100% della retribuzione sia rappresentata dal denaro, quello sarà il segnale che è giunta l'ora di smettere: ritirarsi a vita privata o cambiare mestiere. Perché un conto è far qualcosa per amore, un altro è farla solo e soltanto per denaro.  

Da lì passa la differenza tra un'amante e una mantenuta, tra un liberto e uno schiavo, tra un'attività che riempie di sé un'intera vita e uno stanco e demotivato faticare che quella stessa vita, al contrario, lentamente la consuma e la uccide. 

 



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